23 marzo 2011.
La data di riferimento è quella. 494 voti a favore, 100 contrari e 9 astensioni.
Il Parlamento Europeo approva una modifica all’art. 136 del TFUE, istituendo una nuova organizzazione internazionale a carattere regionale, al fine di conferire maggiore stabilità finanziaria all’eurozona.
Il nome prescelto in quella sede fu: European Stability Mechanism (ESM), tradotto come Meccanismo Europeo di Stabilità, Fondo salva Stati, Fondo ammazza Stati, ecc …
Ora attenzione alle date.
Il Consiglio Europeo, riunito a Bruxelles il 9 dicembre del 2011 decide per una drastica anticipazione dell’entrata in vigore del fondo, da luglio 2013 (come inizialmente previsto) a luglio 2012.
Ricordate quegli anni?
Eravamo agli sgoccioli dell’epopea berlusconiana, lo spread che volava (eppure nessuno capiva bene cosa fosse), la crisi dei debiti sovrani, i prelievi forzosi dai conti correnti a Cipro, la coniazione di “simpatici” acronimi per definire (o forse ghettizzare) alcuni Paesi dell’Unione Europea.
I paesi, per così dire, meno virtuosi erano identificati con la sigla “G.I.P.S.I.” o “P.I.I.G.S.” (dalle iniziali dei nomi dei vari Paesi “in difficoltà”: Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna). A prescindere dai giudizi sul cattivo gusto utilizzato per gli acronimi, i Paesi così identificati, quelli della c.d. Eurozona Periferica, erano quelli accomunati da un alto rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, nonché da un alto rapporto tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo.
Fu proprio tale situazione, accentuata da attacchi speculativi sempre più frequenti, instabilità politica e necessità di armonizzare le politiche finanziarie comunitarie a spingere il legislatore europeo ad adottare misure drastiche come, appunto, un fondo concepito sulla falsa riga del FMI (Fondo Monetario Internazionale) con una capitalizzazione elefantiaca (700 miliardi) per prevenire eventuali situazioni di insolvenza di Stati membri.
Come funziona, dunque, questo fondo?
Il fondo emette prestiti (concessi a tassi fissi o variabili molto agevolati e comunque molto più vantaggiosi rispetto a quelli rinvenibili sul libero mercato per Paesi in crisi) per assicurare assistenza finanziaria ai Membri dell’Unione in difficoltà e acquista titoli di Stato sul mercato primario e secondario.
In pratica, laddove uno Stato membro dovesse trovarsi in una situazione delicata dal punto di vista finanziario, anziché ricorrere al mercato per piazzare i propri titoli, dovendo ivi garantire rendimenti elevati, può attingere al MES.
Tutto bello, tutto conveniente, tutto armonico o almeno è ciò che sembra.
Allora dove nasce la polemica?
Negli ultimi giorni si assiste a un dibattito serrato (più o meno con cognizione di causa) di tutte le forze politiche riguardo la modifica degli accordi sul MES, affinché possa aprire linee di credito agli Stati membri che si trovano in difficoltà sui mercati e, contemporaneamente, diventare prestatore di ultima istanza per le crisi bancarie (come quelle a cavallo degli anni 2009 – 2012).
Nell’idea della varanda riforma, il MES dovrebbe sostanzialmente evolversi in una sorta di Fondo monetario europeo oltre che fungere, al contempo, da backstop comune (una rete di sicurezza) per il Fondo di risoluzione unico delle banche in crisi.
In sintesi, la riforma (che ricordiamo, deve essere ratificata dal Parlamento di ciascuno Stato membro) dispone che il MES dovrebbe dotarsi di due nuovi strumenti a disposizione dell’Eurozona: una “linea di credito precauzionale condizionata” e una “linea di credito a condizioni rafforzate”.
Dove nascono, dunque, le critiche, le remore, le riserve? Laddove non siano strumentali a fini di mera propaganda sterile da tifosi da bar (pro e contro), esse riguardano il meccanismo di accesso a tali linee di credito da parte degli Stati, nonché (una volta usufruite) le sempre maggiori ingerenze nella politica economica nazionale da parte di organismi endogeni.
A questo punto credo di aver toccato il nervo scoperto del dibattito cui assistiamo.
Perché infervorarsi su qualcosa che, ad oggi, ha dato solo benefici all’Italia (che di fatto ha ricevuto più di quanto versato) e la cui riforma, praticamente ad oggi, non tocca il nostro Paese?
Il nodo sta nel fatto che i Paesi che fanno richiesta di aiuto al MES devono accettare di rispettare una serie di indicazioni da parte degli Organismi europei necessarie a risanare la propria situazione economica. Tutto ciò, tra l’altro, sotto il controllo del comitato (la temuta, tanto vituperata, Troika) formato dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale che vigila sull’effettiva realizzazione delle riforme e dei cambiamenti nazionali richiesti dall’Europa.
Ed ecco che, solerti quanto puntuali, insorgono i sovranisti (o presunti tali), al grido di “Lesa Maestà!”, o meglio “Lesa Sovranità!”, pur di racimolare qualche voto, recriminano per una presunta invasione nella politica interna dei paesi in difficoltà da parte della tirannica Europa.
Come al solito, molto banalmente, la verità, a parere di chi scrive, è nel mezzo. Se da un lato l’Eurozona periferica chiede modalità di accesso al credito più semplici che, dunque, non comportino particolari “invasioni” sulle scelte di politica economico sociale interne, dall’altro, i Paesi “virtuosi” chiedono maggiori garanzie e chiarezza circa i motivi e le modalità di elargizione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, oltre che sulle modalità ed i tempi di rientro.
E l’Italia?
L’Italia è nel mezzo. L’Italia è sospesa, citando Baudelaire “tra voglia di assoluto e insensato gusto per il nulla”. L’Italia è il terzo contributore del Meccanismo, avendone sottoscritto una quota del 17,9% e ne è stata una grande beneficiaria. Ora, come accennato sopra, si vuole polemizzare (senza averne le competenze) su una riforma necessaria in nome della solita demagogia populista che impedisce alla politica italiana di guardare oltre il termine delle singole legislature.
Appare evidente quanto scontato che, ad un Paese che versa in difficoltà economiche, con debito caratterizzato da un giudizio di rating medio basso (Baa o BBB) e con uno scenario politico altamente instabile ed umorale, un organismo sovranazionale chieda particolari garanzie prima di concedere linee di credito o prestiti a cuor leggero.
In conclusione, la domanda che si pone agli esponenti del c.d. governo “giallo-verde”, che oggi si rendono portavoce di una rivisitazione del trattato in chiave sovranista, è proprio quella. Vale a dire, voi prestereste del denaro a qualcuno per coprire sprechi assurdi, frutto malato di riforme deprecabili (quota 100, reddito di cittadinanza), senza alcuna garanzia sulle scelte che porteranno alle modalità di restituzione? O meglio, molto più semplicemente, non sarebbe preferibile trovare soluzioni di investimento più sostenibili per i fondi che si hanno a disposizione ed evitare di dover ricorrere a strumenti straordinari quali il MES?
Rispondendo a queste domande, probabilmente, ci si renderebbe conto che ciò che ammazza gli Stati sono gli sprechi inutili, non i meccanismi di salvataggio.
Giulio Elefante
avvocato, dottorando presso il Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation Systems di Unisa