PLASTIC TAX – GREEN ECONOMY O INSOSTENIBILITÀ PER LE PMI?

Partendo dallo oramai famoso “Great Pacific Garbage Patch ” ovvero l’enorme accumulo di plastica le cui dimensioni sono state stimate tra i 700 mila e i 10 milioni di chilometri quadrati (per intenderci l’equivalente della penisola Iberica o degli Usa a seconda della estensione che prendiamo in considerazione) che si è formato nell’Oceano Pacifico e scoperto alla fine degli anni ’80, l’opinione pubblica di tutto il pianeta ha accesso la luce su un problema che non possiamo semplicisticamente definire un vezzo ambientalista.

Esistono soluzioni per cercare di ripulire gli oceani dalla plastica?

Molti governi hanno cominciato ad adottare misure volte a limitarne l’uso, dichiarando guerra alle plastiche usa e getta, alle monoporzioni o agli involucri; altri hanno investito risorse per la ricerca di soluzioni per una vera e propria pulizia degli stessi.

Tra gli Stati più attivi nella guerra alla plastica c’è proprio l’Italia che dapprima, con un emendamento della finanziaria 2017, ha bandito i sacchetti di plastica non biodegradabili, per poi dal 1° Gennaio 2019 proibire la vendita dei cotton fioc non biodegradabili e dal 1° Gennaio 2020 vieterà la vendita di prodotti cosmetici “da risciacquo ad azione esfoliante o detergente” contenenti microplastiche.

Nell’onda ambientalista di questo Governo – così come del precedente – si vuole introdurre con la Manovra di bilancio – ora all’esame della Commissione Bilancio del Senato – la Plastic Tax ovvero una ulteriore tassa per il comparto dei produttori della plastica vestita però da “misura di salvaguardia ambientale”.

Si tratta dell’art. 79 del ddl “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022”, presentato dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, rubricato “Imposta sul consumo dei manufatti in plastica con il singolo impiego e incentivi per le aziende produttrici manufatti in plastica biodegradabile e compostabile” con cui E’ istituita una imposta (pari ad 1 euro per ogni chilogrammo di plastica dei manufatti monouso – oggetto di possibili correttivi al ribasso e/o rinvii) sul consumo dei manufatti con singolo impiego, d’ora in avanti indicati come MACSI, che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari […].

Questa tassa come suggerirebbe il nome del Titolo II del ddl “Misure fiscali a tutela di ambiente e salute” sarebbe pensata per tutelare l’ambiente.

La domanda da porsi è: l’introduzione della plastic tax  ha un effetto positivo per l’ambiente?

Certo, la risposta più banale sarebbe quella di disincentivare, con la sua introduzione, l’uso diffuso della plastica.

La nuova tassa, che si aggiunge al prelievo ambientale – già molto oneroso – che le imprese del settore del packaging pagano per il fine vita degli imballaggi plastici (contributo CONAI per la raccolta e il riciclo), danneggia pesantemente un intero settore produttivo e costituisce una doppia imposizione e, dunque, ingiustificata sia sotto il profilo ambientale che economico-sociale.

Ricordiamo che l’Italia è il secondo maggior produttore dei prodotti packaging in Europa, con 12 miliardi di euro di fatturato l’anno e 3 mila aziende che operano nel settore; pertanto, l’approvazione della plastic tax così come formulata nella manovra di bilancio avrebbe quale unico risultato quello di mettere a repentaglio duemila piccole e medie aziende del settore, che garantiscono il lavoro a oltre 50.000 addetti. Infatti, se pensiamo al solo comparto presente sulla via Emilia, da anni ribattezzata la Packaging valley, che ospita il maggior numero di aziende del comparto in Italia, precisamente 230 con oltre 17.000 occupati e un fatturato annuo di 5 miliardi di euro, pari al 63 per cento del giro di affari nazionale, appare ictu oculi evidente, che le stesse verrebbero fortemente colpite da una imposizione iniqua che affosserebbe o comunque metterebbe in seria difficoltà l’intera economia legata al packaging.

Tornando alla domanda iniziale, per provare a fornire una risposta, risulta davvero complesso se non impossibile trovare un nesso causale tra la scelta legislativa di imporre una tassa “green” e l’obiettivo stesso palesato da questo Governo di ottenere la riduzione dell’uso della plastica.La plastica non è solo un problema di economia e di governance politica, ma anche e soprattutto di comportamenti.

E allora dov’è la verità? Perché questa demonizzazione della plastica?

Probabilmente il fine è quello di indorare la pillola per l’opinione pubblica, facendo accettare come dovuta una tassazione aggiuntiva, che di fatto, penalizzerà per lo più i consumatori, in quanto i maggiori oneri saranno riversati sul prezzo finale dei prodotti.

Ma i conti devono tornare. E nuovamente sono i cittadini, le imprese a supporto dello Stato e non viceversa.

Il disegno di bilancio 2020 – figlio di un compromesso tra forze politiche assolutamente disomogenee e prive di una visione comune del futuro del Paese – vorrebbe introdurre una serie di micro tasse, dalla plastic tax alla sugar tax, che ricadranno inevitabilmente sui bilanci familiari.

Se la ratio della misura è incentivare per via fiscale un cambiamento nella produzione di materiali plastici e nelle abitudini di consumo, il legislatore ha però dimenticato di indicare nel testo quali siano le azioni volte a disincentivare l’uso della plastica.

Pertanto, la misura così presentata risulta inappropriata perché da un lato non si percepisce la finalità ambientale (se non nella sloganizzazione del plastic free) dall’altro si penalizza un settore che sta già facendo grandi sforzi nella direzione della sostenibilità, rischiando al contempo di affossare la competitività di un compartimento produttivo strategico e di eccellenza tutta italiana che deve invece essere incentivato a intraprendere una transizione verso un’economia circolare veramente green.

Sarebbe infatti più utile mettere in campo un sistema organico di incentivi che accompagnino le aziende produttrici verso una riconversione industriale in chiave “green” e/o “circolare” della produzione, prevedendo ad esempio criteri agevolativi sul costo del lavoro direttamente collegato alle innovazioni apportate (produzione di materiale eco o gestione e riuso della materia prima seconda), in analogia a quanto già disciplinato per le start-up e Pmi innovative.

Viene da sé che tale azione coinvolgerebbe anche l’indotto di filiera impattando direttamente in maniera positiva sul Pil del Paese ottenendo un reale Green New Deal.

Allora non mistifichiamo la realtà non facciamo passare un’imposizione decisa per fare cassa, per finanziare nel 2020 provvedimenti inconcludenti (v. quota 100), come una tassa etica che invece, di fatto, mette a repentaglio posti di lavoro e cagiona un grave danno alle imprese del settore.

Il problema della plastica esiste, ma va risolto altrove, da un lato in un’attività di formazione e informazione per aumentare la consapevolezza dei consumatori su un uso (e riuso) corretto della plastica (che va intesa sempre più quale risorsa e non quale rifiuto), dall’altro intraprendere, come detto, una politica seria più coerente con gli obiettivi di tutela dell’ambiente.

Giova ricordare che l’Italia ha una buona performance in termini di sostenibilità ambientale, che la colloca in cima alla classifica dei Paesi europei più virtuosi. In rapporto al PIL, le emissioni di gas serra risultano infatti del 21% più basse della media UE, il consumo di materia prima del 36% e quello di energia addirittura del 57%.

Inoltre, con particolare riferimento alle bottiglie per liquidi alimentari, oggetto di imposizione, si ricorda che la gran parte della plastica utilizzata è il Pet ovvero polietilene tereftalato una plastica riciclabile al 100% e riutilizzabile fino al 50% nella fabbricazione di nuove bottiglie. Con le bottiglie di PET già si realizza il principio dell’economia circolare, tant’è che anche la direttiva europea sulla plastica (n. 904/2019) riconosce la riciclabilità al 100% del PET fissando ambiziosi obiettivi di raccolta e riutilizzo del riciclato.

Ma chi colpisce la plastic tax, i grandi produttori di polimeri?

No, come sempre il tessuto imprenditoriale, costituito per lo più da piccole e medie imprese che non hanno – gioco forza – altro mezzo di difesa che scaricare l’incompetenza delle istituzioni sui consumatori finali, i quali vedranno aumentare il costo della bottiglia di plastica e dei prodotti dolciari.

E allora come bisogna affrontare realmente il problema della plastica negli oceani?

La risposta più realistica è rispolverare le 4 r: Ridurre, Recuperare, Riusare, Riciclare.

Altro problema è il trattamento dei rifiuti di plastica in Italia e in Europa ed è su questo che le politiche nazionali e sovranazionali dovrebbero convogliare risorse e soluzioni. In Europa la termovalorizzazione è il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica, seguito dallo smaltimento in discarica. Il 95% del valore del materiale plastico da imballaggio è sostanzialmente perso dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve. L’Italia, dunque, ha un grave deficit impiantistico in materia di rifiuti dovuto anche a un’avversione ideologica verso gli impianti di smaltimento di qualsiasi tipo (qui occorrerebbe una riflessione a parte). Questo impedisce di trasformare ciò che oggi è visto come un problema, in una risorsa, come avviene in molti Paesi.

Quali sono quindi i problemi che ostacolano il maggiore utilizzo nelle industrie di trasformazione della plastica di materiale riciclato?

Il maggiore riguarda la qualità e il prezzo dei prodotti riciclati rispetto a quelli dei prodotti realizzati con materiale vergine. Le aziende che trasformano la plastica hanno bisogno di una grande quantità di plastica riciclata, la produzione deve rispondere a specifiche di controllo molto severe e il prezzo deve restare competitivo.

Dal momento che le plastiche sono facilmente adattabili ai singoli bisogni (funzionali o estetici) di ogni produttore, la diversità dei materiali di plastica grezzi complica ulteriormente i processi di riciclo, il che incide sul costo e sulla qualità del prodotto finale. Di conseguenza, la domanda della plastica riciclata ammonta al solo il 6% di quella complessiva per la plastica in Europa.

Se, dunque, appaiono in linea con questi risultati le misure contenute nella manovra di bilancio volte a favorire una riconversione coerente con il paradigma dell’economia sostenibile (a partire dal Green New Deal), questo impulso è vanificato da una misura punitiva come, appunto, una tassa che colpisce i produttori e non chi inquina.

Tale dibattito come quello sulla plastic free ha portato all’individuazione di nuovi materiali di origine vegetale, riciclabile e composti da risorse rinnovabili per la realizzazione di beni che prima utilizzavano polimeri chimici. Si pensi al biopolimero ricavato dalla canna da zucchero, i cui maggiori produttori si trovano in Brasile, oppure ai biopolimeri da amido o quelli a base di PLA (Acido Polilattico) o da fermentazione batterica o quelli sintetici da risorse rinnovabili, con i quali si possono produrre carburanti e si possono avere applicazioni nel settore del packaging, nei prodotti usa-e-getta quali i piatti, i bicchieri, e le posate, o in settori come quelli della cosmesi e del tessile, attraverso appunto l’utilizzo di polietilene green.

Se è vero che questi materiali sono definibili green, occorre comunque interrogarsi anche sul profilo etico dell’utilizzo di prodotti agricoli come alternativa sostenibile ai combustibili fossili per produrre materiali di uso comune. Il Brasile ad esempio utilizza 9,2 milioni di ettari per la coltivazione della canna da zucchero dei suoi 330 milioni di ettari di terra arabile, id est per fare il polietilene “I’m green”.

Non si capisce come si possa sottovalutare l’effetto di determinate azioni: l’impatto ambientale che produrrebbe una crociata tutta mediatica. Non si capisce come si possano ignorare esigenze di sostenibilità economica e ambientale in favore delle solite manfrine dialettiche dettate da equilibri di geografia parlamentare.

Ma quanto è sostenibile e quanto è etico imporre la conversione di terreni agricoli per il mero fine produrre bioplastiche? Quanto è sostenibile e quanto è etico penalizzare chi nella realtà dei fatti è già parte (come detto) di quel meccanismo virtuoso di economia circolare?

Eppure basterebbe trarre ispirazione da chi prima di noi ha teorizzato rapporti proficui tra etica ed economia, tra etica e giustizia (Sen, Rawls) per addivenire a progetti che creino posti di lavoro grazie alla conversione sostenibile delle attività produttive, non iniziative volte a monetizzare pochi milioni di euro sulle spalle di uno dei pochi settori che ancora regge l’urto della globalizzazione nel nostro Paese.

Ma le bioplastiche, poi, sono in grado di rispondere alle esigenze del mercato?

Vi sono alcuni aspetti quali il prezzo (costi più elevati rispetto a quelli dei polimeri tradizionali), la performance (vi sono limitazioni riguardanti alcune caratteristiche meccaniche, termiche) il processing (difficoltà con le attrezzature attualmente in commercio) che rappresentano alcune tra le criticità che rendono meno attrattivo per le imprese che operano nel settore della trasformazione del materiale plastico l’utilizzo di biopolimeri in luogo di quelli chimici.

In questa direzione, l’Europa ha messo a punto una strategia comune per la plastica nell’economia circolare per ridurre lo spreco di plastica in prodotti monouso, tanto che già a settembre 2018, si è auspicato che tutti i rifiuti di imballaggi in plastica siano riciclabili entro il 2030. Ciò dovrebbe favorire la nascita di soluzioni studiate ad hoc per il riciclaggio, ma per ottenere questo effetto è necessario che vengano attuate misure che possano incentivare il mercato all’uso della plastica riciclata. Alcune di queste misure che ciascun Stato membro dovrà attuare per una politica sostenibile c’è la riduzione dell’IVA sui prodotti riciclati, la creazione di standard di qualità per la plastica secondaria (riutilizzata) e la predisposizione delle certificazioni che incoraggino la fiducia da parte dell’industria e dei consumatori, nonché introdurre regole obbligatorie sulle quantità minime di contenuto riciclato all’interno di certi prodotti.

Parallelamente, il Parlamento europeo ha messo a punto delle misure che mirano a ridurre le quantità di rifiuti di plastica attraverso il bando di alcuni prodotti di plastica usa e getta e la restrizione dell’utilizzo delle buste di plastica leggera, nonché azioni contro le microplastiche.

Volendo, dunque, tirare le fila del discorso, tornando su quell’enorme, spaventoso continente galleggiante di plastica da cui siamo partiti, appare davvero semplicistico quanto fuorviante pretendere di affermare che un provvedimento come la “plastic tax” possa davvero sortire un reale effetto positivo sull’ambiente.

L’inquinamento da plastica, quello vero, proviene da altrove! Paesi in via di sviluppo che peccano dei più elementari rudimenti di raccolta (figuriamoci di differenziazione) dei rifiuti oltre alla piaga rappresentata da continue, ingenti, perdite di container di navi cargo che tutt’oggi continuano (per qualche incomprensibile motivo) a solcare rotte proibitive per la navigazione.È evidente si tratti di questioni serie e complesse che, come accennato pocanzi, necessitano dell’impegno concreto e pregnante di istituzioni sovranazionali, non, di certo, dell’ennesima tassa che, come visto, si ripercuoterà esclusivamente su noi consumatori finali.

Micaela Chechile

Ph.D. Avvocato

Docente a contratto di Diritto Commerciale

DISA-MIS Università degli Studi di Salerno

Pubblicato da sinòpenauta

Il Think tank Sinòpe è costituito da professionisti, professori, dottori di ricerca, imprenditori e società civile, per affrontare tematiche di stretta attualità. Gli argomenti oggetto del nostro blog e dei nostri dibattiti comprendono: l'ambiente, il welfare, l'inclusione sociale e di genere, l'economia e tutto ciò che necessita di approfondimento. Lo scopo del Think tank è creare contenuti che possano essere rappresentati a vari livelli politici e sociali al fine di comunicare nel modo corretto (scientifico) le tante informazioni (a volte solo "sloganizzazioni") che bombardano l'opione pubblica.

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