DALLE DOMENICHE A PIEDI ALL’ “IO RESTO A CASA” L’Italia al tempo delle crisi

1973. Giorno dello Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria attaccano Israele. Torna la guerra in un territorio già martoriato da decenni. I paesi dell’OPEC decidono di sostenere l’azione di Egitto e Siria con robusti aumenti del prezzo del barile ed embargo nei confronti dei paesi maggiormente filo-israeliani. È la guerra del Kippur, che segna l’inizio della fine del boom economico incominciato negli anni ’60. È la prima crisi petrolifera.

Le conseguenze per l’Italia furono pesantissime. Il termine “austerity” prima sconosciuto iniziò a riecheggiare sui rotocalchi di tutto il paese. Era l’Italia che per la prima volta dalla fine della guerra deve fare i conti con la propria fragilità. Per la prima volta si iniziò a parlare di “Austerity economica”, di risparmio energetico, di centrali nucleari. Era l’anno delle domeniche a piedi, della fine anticipata dei programmi televisivi e della riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale.

1979. Siamo in Iran, anzi, per qualche momento ancora in Persia, dove il regno dello Scià Mohammad Reza Pahlavi è al suo passo d’addio. Tutte le forze antimonarchiche sostenute dal clero sciita si stanno stringendo intorno alla figura carismatica e controversa dell’ayatollah Khomeyni, in esilio a Parigi dal 1963.

A due passi c’è l’Iraq, che in quel momento si regge su un delicatissimo equilibrio tenuto in piedi dalla nascente dittatura di Saddam Hussein. La guerra è alle porte, la situazione nella polveriera mediorientale precipita di nuovo insieme alla produzione di petrolio.

Peggio che nel 1973 l’occidente si scopre fortemente dipendente dai paesi produttori di petrolio a causa del sempre crescente fabbisogno energetico: sulla costa orientale degli USA, la benzina divenne così difficile da trovare che gli automobilisti passarono ore in lunghe file, attendendo di poter acquistare il rifornimento per pochi giorni. Si torna alle domeniche a piedi, si torna a parlare di efficientamento energetico e di fonti alternative.

1987. 19 ottobre. L’economia veleggia come mai prima di allora. Sono gli anni ’80 nel loro pieno splendore, nel pieno dell’edonismo reaganiano, gli anni delle contrattazioni di borsa ormai a portata di tutti, i primi cellulari, la prima bolla immobiliare in Giappone, gli anni patinati di Madonna e dei Duran Duran, gli anni del turbo capitalismo stile Chicago. Eppure quell’anonimo lunedì di metà ottobre sveglia tutti da un sogno fatto di crescita oltre ogni misura. È il lunedì nero delle borse. I mercati finanziari di tutto il mondo piombano d’un tratto nell’incubo di una nuova crisi del ’29. L’indice Dow Jones a Wall Street crollava del 22,6%, una percentuale più che doppia del peggiore calo accusato proprio dalla borsa americana in un’unica seduta con la crisi finanziaria di fine anni Venti. I crolli si propagarono a tutte le borse, con il FTSE 100 di Londra a chiudere la giornata a -26,4%, Madrid a -31%, Sidney di un catastrofico -41,8% e Hong Kong a -45%, solo a Piazza Affari il calo è contenuto: -6,4%. Sul piano più propriamente economico e finanziario, non vi fu alcuna causa ad avere provocato i crolli. L’economia americana andava, eccome se andava (siamo sempre negli anni della Reaganomics), quella mondiale pure. E Wall Street correva proprio in virtù della prima fase di globalizzazione finanziaria, avviata sotto la presidenza Reagan e assecondata in Europa da Margaret Thatcher. E proprio questo rese quel crollo del tristemente famoso “lunedì nero di Wall Street” un caso unico. Fu il segno che l’informatizzazione avanzata fosse un’arma a doppio taglio, lungi dalla perfezione, chiudendo bruscamente le transazioni ad un valore minimo preimpostato dai trader.

1992. L’anno che verrà ricordato per tangentopoli, per la fine della prima guerra nel Golfo, per l’inizio del disgregamento della Jugoslavia, per Maastricht e per il cambio di rotta imposto al mondo con l’elezione di Bill Clinton dopo 12 anni di potere del GOP. Ma è anche l’anno di svolta nelle politiche monetarie continentali che per la prima volta si trovano a dover fronteggiare l’onda di speculazioni massicce sui “currency markets”. È quello che verrà ricordato come mercoledì nero, il 16 settembre 1992. Lira e Sterlina svalutate in doppia cifra e costrette ad uscire dallo SME. Giuliano Amato tiene un discorso senza mai pronunciare la parola “svalutazione”, ed eccoci, dopo la patrimoniale del 6 per mille imposta pochi mesi prima, a pagare la fragilità di una economia che doveva adattarsi continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica piuttosto diffusa, allora come oggi.

2000. Stavolta non c’è nessuno scenario di guerra, nessuna crisi e, nell’immaginario collettivo, il terrorismo è ancora qualcosa di lontano, di circoscritto a quella polveriera mediorientale. Ancora, già, almeno fino a quel maledetto 11 settembre del 2001 che cambierà l’occidente per sempre. Fino a quel momento, però, l’economia ha trovato nuova linfa, un nuovo settore è esploso fino, inevitabilmente, a scoppiare. Scoppiare, come una bolla di sapone. È quello che passerà alla storia come la crisi delle “dot-com”. Stavolta è un altro fattore esogeno a mandare in crisi quell’equilibrio raggiunto in maniera così agognata. Stavolta la paura tocca un mondo che mai prima di allora si sarebbe immaginato potesse crollare. Secondo la teoria delle dot-com, la sopravvivenza di una società in questo settore dipendeva dall’espansione della sua base di clienti il più rapidamente possibile, anche se a costo di grandi perdite annuali, la frase “espandersi o fallire” è il motto del momento. Il 10 marzo succede l’inevitabile. Alcuni sono costretti a chiudere, altri colossi perderanno fino all’80% della capitalizzazione. Lo shock sarà il prezzo pagato dagli investitori per la rapidità dell’aumento del valore delle azioni in quell’ambito.

2003. L’economia cinese cresce a ritmi forsennati. Mentre la vecchia Europa arranca alle prese con miopi politiche deflazioniste il PIL cinese registra aumenti in doppia cifra. Come un fulmine a ciel sereno Standard &Poor’s lancia l’allarme: l’economia cinese sta rallentando. Stavolta non c’è nessuno speculatore senza scrupoli, nessun terrorista, nessuna crisi. Per la prima volta da quella che nei lontani anni 50 riecheggiò in Europa come “febbre asiatica”, i telegiornali ingolfati dalle notizie che arrivano dall’Iraq, pronunciano la parola “pandemia” quanto basta per gettare il pianeta nel panico. Al governo di Pechino quell’inverno costerà mille morti e 25 miliardi di dollari (al cambio) bruciati in pochi giorni. L’ennesima “prima volta” per l’occidente che si rende conto che ciò che accade dall’altro lato del globo non è poi così lontano.

Ebbene, a guardare da lontano tutti gli avvenimenti che hanno condizionato il nostro modo di vivere e di vedere le cose, ci si pone la seguente domanda: abbiamo davvero vissuto situazioni emergenziali, oppure siamo stati ciclicamente vittime di un enorme “grande fratello” di orwelliana memoria o di un “Thruman show” globale, con tutti, o quasi tutti coinvolti?

E già, poiché tralasciando volontariamente, rispetto a questa analisi, i fatti che hanno portato al crollo globale del 2007 (dovuto appunto a fattori endogeni al sistema economico), ci sono e ci sono stati avvenimenti più o meno previsti o prevedibili che hanno rimesso in gioco i valori di ognuno, il modo di vedere il mondo, il modo di vedere sé stessi e chi ci sta accanto, il modo di guardare alle istituzioni.

Nel 73 e nel 79 due dannate guerre.

Nell’ 87 sistemi automatici inadeguati (la leggenda vuole la causa in una tempesta su Londra).

Nel 92 l’avidità di uno speculatore miliardario.

Nel 2000 un mondo redditizio e sconosciuto (troppo) ai più.

Nel 2003 una maledetta epidemia.

E l’Italia?… in tutto questo?…

Già, l’Italia?? …

Si è accennato di come l’Italia, o meglio, gli italiani, un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi e pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori (così descritti sul fronte del Palazzo della Civiltà, noto ai più come Colosseo quadrato), abbiano affrontato le crisi congiunturali che il mondo gli ha parato davanti.

Ma ora? Che succede ora?

2020. “Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta”. Così il britannico Christian Jessen, medico, scrittore e presentatore televisivo con una battuta commenta l’emergenza covid-19 e ridicolizza le abitudini italiane estremizzando atteggiamenti più o meno realistici, ma che poco c’entrano con la decisione del Governo di adottare provvedimenti restrittivi per evitare l’avanzare del coronavirus.

Ognuno di noi si è posto la domanda se il motto tanto caro a Conte “io resto a casa” fosse eccessivo e se in una scala di valori, debba considerarsi preminente il diritto alla salute – condensato in uno slogan- o la tutela delle libertà civili. E dare la risposta a tale interrogativo può rappresentare la chiave di svolta ai dubbi di ciascuno.

Se si guarda a Paesi (v. Gran Bretagna o Germania) che ancora oggi in una sorta di negazionismo propendono per invertire la scala di valori, quasi per ritornare alla selezione della specie di Darwiniana memoria, ritengono di non dovere attivarsi con misure atte a prevenire il contagio, così si esprime il primo ministro Boris Johnson “molte famiglie perderanno i loro cari prima del tempo” ma il governo inglese non ha disposto particolari azioni volte a limitare la diffusione del virus (scuole, Università e fabbriche, ad esempio, restano aperte), anche se sconsiglia spostamenti e assembramenti.nello stesso senso la cancelliera tedesca Angela Merkel nella sua prima conferenza stampa sulla epidemia di coronavirus dichiara che “gli esperti affermano che tra il 60 e il 70 per cento delle persone saranno contagiate”, ma ugualmente non venivano adottate misure di contenimento e mitigazione. Ma oggi dichiara “Ora misure più severe”.

L’Italia invece decide attraverso decretazione d’urgenza di disporre misure sempre più restrittive per il contenimento e il contrasto del diffondersi del covid-19 sull’intero territorio nazionale, impedendo così di fatto l’esercizio delle attività produttive, ad eccezione dei servizi essenziali.

Da qui l’interrogativo su chi sta seguendo la strada giusta, se i nostri Governanti o gli altri, sorge spontaneo. 

Se si guarda all’aspetto puramente economico i dati non sono affatto confortanti, la chiusura prolungata di determinate attività rende di fatto, in mancanza di risposte chiare da parte di chi amministra, impossibile la riapertura quando l’emergenza si riterrà finalmente conclusa. Le risposte arrivano dal Governo confuse e frutto di grande approssimazione e poca competenza. Per cui si propende per ritenere, non in senso puramente esterofilo, che forse hanno ragione gli altri, quegli Stati che aspettano in modo silenzioso che tutto passi, sicuramente con vittime umane, ma non giuridiche.

Poi però ci viene in mente un discorso tenuto qualche anno fa, nel marzo del 2015, durante un Ted Talk dall’uomo più ricco del mondo e forse anche il più saggio o quantomeno visionario, in cui afferma che “La prossima guerra che ci distruggerà non sarà fatta di armi ma di batteri. Spendiamo una fortuna in deterrenza nucleare, e così poco nella prevenzione contro una pandemia, eppure un virus oggi sconosciuto potrebbe uccidere nei prossimi anni milioni di persone e causare una perdita finanziaria di 3.000 miliardi in tutto il mondo”. Inoltre, Bill Gates rifletteva sulla circostanza che “L’Ebola” (minaccia pandemica sfiorata nel 2014) ci ha offerto un vantaggio enorme, dal momento che il virus restava intrappolato nel corpo, e i malati erano presto ridotti al letto con scarsa possibilità di infettarne altri diceva Gates – Immaginate cosa succederebbe se una delle varianti della aviaria cinese cominciasse ad attraversare gli oceani insieme alle 30.000 persone che ogni giorno transitano dal Paese asiatico verso il resto del mondo”.

Pertanto, la minaccia di questa pandemia, oggi attuale, ha lasciato indifferente i Governi di tutto il mondo che non si sono attivati per rinforzare i sistemi sanitari e mettere in campo tutte le competenze anche tecnologiche per dare vita a una task force capace di difenderci quando il paventato pericolo si sarebbe presentato.

Ed eccoci ai giorni nostri, a fare i conti con un sistema sanitario ingolfato e incapace di reggere i numeri di questa epidemia e che costringe il Paese Italia e la sua economia ad inginocchiarsi davanti l’avanzare del contagio, perché non abbiamo sufficienti strumenti e posti letto per sorreggere i ricoveri di tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento. Gli stessi medici da più parti gridano alla necessità di seguire scrupolosamente le misure adottate perché l’attenzione all’epidemia di coronavirus non è dovuta alla sua letalità quanto alla capacità di far “saltare” il nostro sistema sanitario.

Pertanto, l’equazione è presto fatta, anche se il rischio di contrarre la malattia nella popolazione, soprattutto al di fuori dei focolai, rimane basso, la diffusione del virus va rallentata per evitare che questo rischio aumenti con il conseguente collasso degli ospedali. Più persone si ammalano, anche se asintomatiche o in modo lieve, più individui necessiteranno di ricovero.

Da queste premesse, appare del tutto inutile anche provare a fare una analisi economica e/o più propriamente giuridica perché sarebbe un ossimoro.

E già, perché il dato di fatto di partenza è la perdita di 11 miliardi (!!!) di capitalizzazione al FTSE di Milano. Uno shock per qualcuno insostenibile (come per alcuni operatori nella filiera del petrolio costretti a chiudere dopo il tonfo al NYMEX registrato in queste settimane) che potrebbe portare, secondo gli analisti, ad un tonfo pari alla metà di quello avuto nel biennio 2007/08.

Certo, la FED taglia i tassi al minimo, la BCE provvede all’acquisto di titoli di stato dei Paesi in difficoltà. Basterà? Basterà a fronteggiare la marea? Basterà, senza una iniezione di liquidità nel sistema?

In una delle sue ultime interviste, Montanelli parlando dell’Italia, alla sua maniera, cinicamente ironica, colta, lucida e con una vena di pessimismo, si espresse lanciando una provocazione, secondo cui per l’Italia futuro non vi fosse, ma per gli italiani sì. Radioso. Perché gli italiani in un modo o nell’altro sanno cavarsela.

È ignoto a chi scrive quali saranno le prossime sfide cui il mondo ci sottoporrà, si rischia di fare supposizioni più o meno competenti a seconda degli ambiti. Ed è altresì ignoto quali possano essere in futuro quei fattori esogeni provenienti dalla sovrastruttura sociale, politica, culturale, che andranno ad influenzare la struttura economica (come in una sorta di rovesciamento delle categorie marxiste).

Ciò che è certo è che ogni momento di difficoltà, dalle domeniche a piedi degli anni 70, al più o meno condivisibile “io resto a casa” odierno, ci ha insegnato a guardare avanti.

Oggi ci troviamo sospesi tra la denuncia, il grido, di uno stato di emergenza eccezionale e il negazionismo trumpiano. Sospesi. Perché l’equilibrio alla società dei social è sconosciuto. Perché la società dei social non riesce proprio a guardarsi allo specchio e ad accettare la mediocrità dell’epoca insignificante che viviamo.

Eppure, come già rimarcato, anche stavolta, anche questa emergenza ci obbliga a guardare lontano ed imparare dagli errori di oltre mezzo secolo, non fosse altro per tentare di ridare dignità alla luce della cultura offuscata dal qualunquismo dei social.

Non sappiamo quanto sia vero che stare chiusi in casa faccia bene, pur comprendendo l’utilità. Non sappiamo nemmeno quanto sia vero che stare chiusi, o rinchiusi, come ci stanno obbligando, possa riavvicinarci a valori ormai in disuso (come fu per quelle domeniche a piedi), perché, d’altra parte, per chi come noi italiani certi valori sono immanenti, sono quotidiani, lo stare chiusi porta solo tanta tristezza. Lo stare chiusi rischia di sbatterti in faccia ciò che forse non avresti mai voluto guardare fino in fondo.

Ma ci piace pensare, seguendo lo slogan del momento, che andrà tutto bene!

phd avv. Micaela Chechile

avv. Giulio Elefante

Sinopenauti

Pubblicato da sinòpenauta

Il Think tank Sinòpe è costituito da professionisti, professori, dottori di ricerca, imprenditori e società civile, per affrontare tematiche di stretta attualità. Gli argomenti oggetto del nostro blog e dei nostri dibattiti comprendono: l'ambiente, il welfare, l'inclusione sociale e di genere, l'economia e tutto ciò che necessita di approfondimento. Lo scopo del Think tank è creare contenuti che possano essere rappresentati a vari livelli politici e sociali al fine di comunicare nel modo corretto (scientifico) le tante informazioni (a volte solo "sloganizzazioni") che bombardano l'opione pubblica.

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