Ovvero i possibili effetti del covid-19 sulla psiche

Nonostante gli alti e bassi di chiusure ed aperture, di passaggi da provvedimenti severi ad allentamenti delle restrizioni, di fatto, l’emergenza coronavirus da un anno ormai ci tiene in uno stato di allerta continuo. Tra telegiornali e programmi televisivi che ormai non sembrano più capaci di occuparsi d’altro, interventi politici e continui report giornalieri su dati relativi a contagi, decessi e ospedalizzati, parliamo solo un’unica grande lingua, quella della paura, dell’infinita attesa di un vaccino salvatore e di un senso di isolamento e incertezza.
L’effetto che tutto questo avrà su di noi, sulla nostra mente e le relazioni sociali, lo scopriremo solo nel tempo ma, fin da ora, possiamo già in parte osservarli ed in larga parte ipotizzarli. Quel che è certo è che saranno innumerevoli, complessi e molto diversificati. Per il Sistema Sanitario continueranno ad essere tempi duri, bisognerà prepararsi ad affrontare non solo l’emergenza sanitaria ma anche un incremento elevato di disturbi psicologici che non riguarderanno soltanto chi la pandemia l’ha vissuta e vive quotidianamente sulla propria pelle, come i malati e gli operatori sanitari, ma anche tutto il resto dell’umanità che ne subisce gli effetti più o meno indiretti ed in misura differente a seconda che si tratti di bambini, adulti, anziani o adolescenti.
Sicuramente non è possibile ridimensionare la vastità dell’argomento e degli effetti in un unico e semplice scritto come questo, pur tuttavia, alcune riflessioni possono essere rappresentate.
Come dicevo, è ormai diverso tempo che viviamo in uno stato continuo di allerta e di pressione psicologica. Gli studi hanno dimostrato che una certa dose di stress, o pressione ambientale, è utile alla vita in senso adattivo, ossia induce nell’organismo una risposta che lo rende in grado di adeguarsi meglio alle nuove condizioni o situazioni in cui si viene a trovare, rendendolo, pertanto, maggiormente in grado di sopravvivere ai cambiamenti, come già abbondantemente descritto da Charles Darwin nell’800. Purtroppo, però, se le richieste ambientali superano determinati livelli di intensità, frequenza e durata, allora ecco che lo stress acquisisce connotati fortemente negativi e disfunzionali, dando vita a reazioni disadattive e condizioni di malessere e disagio. Delle recenti ricerche hanno messo in evidenza come già durante il lockdown di marzo e, poi successivamente ad esso, siano aumentati disturbi del sonno, depressione, panico, reazioni ansiose e uso di psicofarmaci, ma anche di vissuti di impotenza, angoscia, frustrazione, rabbia. Sono state individuate e descritte le diverse reazioni umane alla quarantena: la sindrome del prigioniero e la sindrome della capanna. Così come si parla dei disturbi post-traumatici da stress per il personale sanitario sottoposto a ritmi, turni e condizioni di lavoro massacranti dal punto di vista fisico e psicologico.
È chiaro che stiamo vivendo una situazione del tutto eccezionale ed imprevista a cui non eravamo preparati, che ci ha costretti a cambiare profondamente le nostre abitudini e d’un tratto ci siamo ritrovati a renderci conto che anche i nostri gesti quotidiani più semplici e naturali si sono trasformati in atti pericolosi per la nostra salute e, in alcuni casi purtroppo, per la sopravvivenza. Una condizione, questa, fortemente preoccupante che ci costringe a vivere in una condizione che definirei anti-umana, perché ribalta completamente il nostro mondo e ci pone nella condizione paradossale di dover mantenere la nostra essenza, la nostra umanità, in un ambiente in cui tutto ciò che normalmente ci serve fin dalla nascita per un sano sviluppo psicofisico e di protezione da patologie e disagio mentale è bandito perché pericoloso. La vicinanza, il contatto fisico, le relazioni sociali sono tutto ciò che ci rende umani ma oggi diventano minaccia alla nostra stessa sopravvivenza. E cosa succede quando la vita/sopravvivenza è minacciata? Istintivamente due sono le possibilità: la fuga o l’attacco. Tutta la varietà di reazioni umane che si sta palesando in questi mesi, la paura, l’assalto ai supermercati, l’isolamento, la negazione, la diffidenza, fino ad arrivare alle reazioni rabbiose, la stigmatizzazione e la caccia all’untore possono essere tutte spiegate da questa semplice e fisiologica nonché primitiva reazione “fight or flight”.
Quando ci ritroviamo in questo stato di allerta, tutto diventa una possibile minaccia, guardiamo il mondo attraverso una lente di paura, il nostro pensiero si distorce, rimaniamo bloccati in uno situazione in cui è attivo il sistema nervoso autonomo, fuori dalla nostra volontà e controllo. In tali situazioni non riusciamo a mantenere un pensiero lucido né il cuore aperto perché l’unico obiettivo su cui possiamo rimanere concentrati è l’autodifesa. Ovviamente questo meccanismo primitivo si disattiva quando il pericolo è passato. Ma allora cosa succede se una condizione di allarme si protrae troppo a lungo? La fisiologia ci dice che perdiamo la capacità di rilassarci e rimaniamo costantemente in uno stato di stress continuo che ci fa consumare tantissime energie senza avere la possibilità di recuperarle. Diventiamo incapaci di gestire le emozioni e le relazioni.
Che succederà, dunque, se questa tragica situazione si protrarrà a lungo? Cosa accadrà se ci abitueremo a rimanere diffidenti, distanti e impareremo a trattenere il nostro naturale istinto a ricercare vicinanza, manifestare affetto e se ci chiuderemo ancora di più nella nostra bolla di sicurezza e isolamento?
Ma la situazione è davvero molto più complessa, il coronavirus sta dando un duro colpo anche all’economia, amplificando le differenze sociali, il malessere di vita e i conflitti, come dimostrato anche dall’aumento di furti e reati. A tutto questo si somma il fatto che già prima della pandemia, la situazione sociale era fortemente compromessa, isolamento, difficoltà relazionali, egocentrismo, chiusura e sfiducia stavano già dilagando. Con queste terribili premesse, sembra che ci attenda un futuro di individualismo senza speranza. Dove andrà a finire l’umanità? Come sarà il mondo post-covid? Come potremo salvaguardare la salute mentale e delle relazioni umane se tutti i fattori di protezione (vicinanza fisica, presenza, incontri, socialità, sport…) si sono trasformati nella minaccia più grande da evitare?
Eppure io non riesco ad essere così pessimista e ad avere una visione così tragica. Certamente molto faranno le differenze individuali, c’è chi nelle difficoltà tende a rimboccarsi le maniche e darsi da fare per trovare soluzioni creative e chi invece si lascia andare e si abbandona nell’attesa che l’onda passi, ma gli operatori della salute mentale sanno bene che le crisi possono stimolare cambiamenti evolutivi e la psicologia sociale evidenzia come durante pandemie e catastrofi naturali molto spesso si sviluppano atteggiamenti di cooperazione sia in relazioni preesistenti sia tra sconosciuti in seguito ad un nuovo senso di appartenenza derivante dall’aver vissuto un’esperienza comune.
Inoltre, ritengo che il virus stia funzionando da amplificatore degli effetti dannosi di una deriva psicosociale che si era avviata rovinosamente. Eravamo come la rana che, finita in una pentola d’acqua si adatta lentamente alla temperatura che aumenta progressivamente in maniera impercettibile fino a morirne quando ormai l’acqua è troppo calda e le sue forze per saltare fuori sono venute meno. Il virus è come se avesse fatto innalzare di colpo la temperatura, facendoci spaventare ma al tempo stesso dandoci quella spinta giusta a svegliarci e uscire dal torpore in cui ci stavamo abbandonando per una modifica ormai necessaria e improcrastinabile del nostro stile di vita.
Innanzitutto ci ha insegnato a rallentare e costretti a stare più in contatto con noi stessi, a dedicarci ai nostri interessi o a scoprirne di nuovi, come fare il pane e la pizza in casa, inoltre alcune ricerche hanno evidenziato un aumento della spiritualità.
Si è fatto uso della tecnologia per rimanere i contatto con amici e parenti e, non potendosi incontrare, fare nuove conoscenze si è trasformato in un nuovo raccontarsi, conoscersi e parlare di sé, superando quella che ormai stava diventando un’abituale modalità relazionale “mordi e fuggi”.
Chiaramente quello che succederà non è scontato, ma almeno si può sperare in alcune cose, per esempio gli studiosi puntano sul post-traumatic growth, gli effetti positivi del trauma, tra questi lo sviluppo di un nuovo senso di comunità, collaborazione e solidarietà. Io, dal canto mio, spero in quello che i miei sensi mi fanno percepire: l’immutata voglia di uscire ed incontrarsi in una bella giornata di sole che fa andare contro i divieti e le limitazioni, l’aumento del numero di runner e sportivi “da strada” (non se n’erano mai visti così tanti prima d’ora), la possibilità di partecipare ad un’ampia varietà di webinar che incrementano sapere e conoscenza riducendo le distanze fisiche e ampliando la rete di contatti, lo strano e sconvolgente (per noi adulti disillusi) desiderio dei bimbi di ritornare a scuola, i mille modi diversi escogitati per salutarsi “a distanza”, l’aiuto dei vicini di casa che ti portano la spesa o accompagnano il tuo cane giù a fare la sua passeggiata con bisognini annessi….. ecco!
Tutto questo ad altro ancora mi fa ben sperare, se non in un futuro migliore, quantomeno nell’impossibilità di vedere modificata del tutto la nostra essenza, mi fa sperare nella naturale resilienza dell’individuo, nell’innata spinta verso la vita e la libertà… mi fa sperare nella nostra indistruttibile umanità!
Stefania Grisi
psicologa

Laureata nel 2001 in Psicologia indirizzo dello sviluppo e dell’educazione, presso
l’università La Sapienza di Roma, mi sono successivamente specializzata in Psicoterapia
Individuale e di Gruppo ad orientamento umanistico-esistenziale presso l’ASPIC di Roma
(2008).
Ho maturato le mie prime esperienze più importanti nel settore dell’assistenza sanitaria e
della riabilitazione, come volontaria e tirocinante prima e come consulente
successivamente, svolgendo attività di sostegno psicologico, valutazione dello stress
lavoro correlato e prevenzione al burn-out degli operatori, con particolare attenzione al
settore oncologico.
Ho integrato la mia formazione psicologica con esperienze di sviluppo personale e
tecniche quali meditazione, enneagramma, psicosomatica e training autogeno.
Attualmente svolgo attività libero-professionale a Salerno come psicoterapeuta individuale,
conduttrice di gruppi e psicologa scolastica.
“Ci vuole coraggio per guardarsi dentro ed incontrare i peggiori incubi. Ci vuole coraggio per smettere di accontentarsi, difendersi dalla vita per paura di sbagliare e pretendere la felicità”