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PANDEMICA…MENTE

Ovvero i possibili effetti del covid-19 sulla psiche

Nonostante gli alti e bassi di chiusure ed aperture, di passaggi da provvedimenti severi ad allentamenti delle restrizioni, di fatto, l’emergenza coronavirus da un anno ormai ci tiene in uno stato di allerta continuo. Tra telegiornali e programmi televisivi che ormai non sembrano più capaci di occuparsi d’altro, interventi politici e continui report giornalieri su dati relativi a contagi, decessi e ospedalizzati, parliamo solo un’unica grande lingua, quella della paura, dell’infinita attesa di un vaccino salvatore e di un senso di isolamento e incertezza.

L’effetto che tutto questo avrà su di noi, sulla nostra mente e le relazioni sociali, lo scopriremo solo nel tempo ma, fin da ora, possiamo già in parte osservarli ed in larga parte ipotizzarli. Quel che è certo è che saranno innumerevoli, complessi e molto diversificati. Per il Sistema Sanitario continueranno ad essere tempi duri, bisognerà prepararsi ad affrontare non solo l’emergenza sanitaria ma anche un incremento elevato di disturbi psicologici che non riguarderanno soltanto chi la pandemia l’ha vissuta e vive quotidianamente sulla propria pelle, come i malati e gli operatori sanitari, ma anche tutto il resto dell’umanità che ne subisce gli effetti più o meno indiretti ed in misura differente a seconda che si tratti di bambini, adulti, anziani o adolescenti.

Sicuramente non è possibile ridimensionare la vastità dell’argomento e degli effetti in un unico e semplice scritto come questo, pur tuttavia, alcune riflessioni possono essere rappresentate.

Come dicevo, è ormai diverso tempo che viviamo in uno stato continuo di allerta e di pressione psicologica. Gli studi hanno dimostrato che una certa dose di stress, o pressione ambientale, è utile alla vita in senso adattivo, ossia induce nell’organismo una risposta che lo rende in grado di adeguarsi meglio alle nuove condizioni o situazioni in cui si viene a trovare, rendendolo, pertanto, maggiormente in grado di sopravvivere ai cambiamenti, come già abbondantemente descritto da Charles Darwin nell’800. Purtroppo, però, se le richieste ambientali superano determinati livelli di intensità, frequenza e durata, allora ecco che lo stress acquisisce connotati fortemente negativi e disfunzionali, dando vita a reazioni disadattive e condizioni di malessere e disagio. Delle recenti ricerche hanno messo in evidenza come già durante il lockdown di marzo e, poi successivamente ad esso, siano aumentati disturbi del sonno, depressione, panico, reazioni ansiose e uso di psicofarmaci, ma anche di vissuti di impotenza, angoscia, frustrazione, rabbia. Sono state individuate e descritte le diverse reazioni umane alla quarantena: la sindrome del prigioniero e la sindrome della capanna. Così come si parla dei disturbi post-traumatici da stress per il personale sanitario sottoposto a ritmi, turni e condizioni di lavoro massacranti dal punto di vista fisico e psicologico.

È chiaro che stiamo vivendo una situazione del tutto eccezionale ed imprevista a cui non eravamo preparati, che ci ha costretti a cambiare profondamente le nostre abitudini e d’un tratto ci siamo ritrovati a renderci conto che anche i nostri gesti quotidiani più semplici e naturali si sono trasformati in atti pericolosi per la nostra salute e, in alcuni casi purtroppo, per la sopravvivenza. Una condizione, questa, fortemente preoccupante che ci costringe a vivere in una condizione che definirei anti-umana, perché ribalta completamente il nostro mondo e ci pone nella condizione paradossale di dover mantenere la nostra essenza, la nostra umanità, in un ambiente in cui tutto ciò che normalmente ci serve fin dalla nascita per un sano sviluppo psicofisico e di protezione da patologie e disagio mentale è bandito perché pericoloso. La vicinanza, il contatto fisico, le relazioni sociali sono tutto ciò che ci rende umani ma oggi diventano minaccia alla nostra stessa sopravvivenza. E cosa succede quando la vita/sopravvivenza è minacciata? Istintivamente due sono le possibilità: la fuga o l’attacco. Tutta la varietà di reazioni umane che si sta palesando in questi mesi, la paura, l’assalto ai supermercati, l’isolamento, la negazione, la diffidenza, fino ad arrivare alle reazioni rabbiose, la stigmatizzazione e la caccia all’untore possono essere tutte spiegate da questa semplice e fisiologica nonché primitiva reazione “fight or flight”.

Quando ci ritroviamo in questo stato di allerta, tutto diventa una possibile minaccia, guardiamo il mondo attraverso una lente di paura, il nostro pensiero si distorce, rimaniamo bloccati in uno situazione in cui è attivo il sistema nervoso autonomo, fuori dalla nostra volontà e controllo. In tali situazioni non riusciamo a mantenere un pensiero lucido né il cuore aperto perché l’unico obiettivo su cui possiamo rimanere concentrati è l’autodifesa. Ovviamente questo meccanismo primitivo si disattiva quando il pericolo è passato. Ma allora cosa succede se una condizione di allarme si protrae troppo a lungo? La fisiologia ci dice che perdiamo la capacità di rilassarci e rimaniamo costantemente in uno stato di stress continuo che ci fa consumare tantissime energie senza avere la possibilità di recuperarle. Diventiamo incapaci di gestire le emozioni e le relazioni.

Che succederà, dunque, se questa tragica situazione si protrarrà a lungo? Cosa accadrà se ci abitueremo a rimanere diffidenti, distanti e impareremo a trattenere il nostro naturale istinto a ricercare vicinanza, manifestare affetto e se ci chiuderemo ancora di più nella nostra bolla di sicurezza e isolamento?

Ma la situazione è davvero molto più complessa, il coronavirus sta dando un duro colpo anche all’economia, amplificando le differenze sociali, il malessere di vita e i conflitti, come dimostrato anche dall’aumento di furti e reati. A tutto questo si somma il fatto che già prima della pandemia, la situazione sociale era fortemente compromessa, isolamento, difficoltà relazionali, egocentrismo, chiusura e sfiducia stavano già dilagando. Con queste terribili premesse, sembra che ci attenda un futuro di individualismo senza speranza. Dove andrà a finire l’umanità? Come sarà il mondo post-covid? Come potremo salvaguardare la salute mentale e delle relazioni umane se tutti i fattori di protezione (vicinanza fisica, presenza, incontri, socialità, sport…) si sono trasformati nella minaccia più grande da evitare?

Eppure io non riesco ad essere così pessimista e ad avere una visione così tragica. Certamente molto faranno le differenze individuali, c’è chi nelle difficoltà tende a rimboccarsi le maniche e darsi da fare per trovare soluzioni creative e chi invece si lascia andare e si abbandona nell’attesa che l’onda passi, ma gli operatori della salute mentale sanno bene che le crisi possono stimolare cambiamenti evolutivi e la psicologia sociale evidenzia come durante pandemie e catastrofi naturali molto spesso si sviluppano atteggiamenti di cooperazione sia in relazioni preesistenti sia tra sconosciuti in seguito ad un nuovo senso di appartenenza derivante dall’aver vissuto un’esperienza comune.

Inoltre, ritengo che il virus stia funzionando da amplificatore degli effetti dannosi di una deriva psicosociale che si era avviata rovinosamente. Eravamo come la rana che, finita in una pentola d’acqua si adatta lentamente alla temperatura che aumenta progressivamente in maniera impercettibile fino a morirne quando ormai l’acqua è troppo calda e le sue forze per saltare fuori sono venute meno. Il virus è come se avesse fatto innalzare di colpo la temperatura, facendoci spaventare ma al tempo stesso dandoci quella spinta giusta a svegliarci e uscire dal torpore in cui ci stavamo abbandonando per una modifica ormai necessaria e improcrastinabile del nostro stile di vita.

Innanzitutto ci ha insegnato a rallentare e costretti a stare più in contatto con noi stessi, a dedicarci ai nostri interessi o a scoprirne di nuovi, come fare il pane e la pizza in casa, inoltre alcune ricerche hanno evidenziato un aumento della spiritualità.

Si è fatto uso della tecnologia per rimanere i contatto con amici e parenti e, non potendosi incontrare, fare nuove conoscenze si è trasformato in un nuovo raccontarsi, conoscersi e parlare di sé, superando quella che ormai stava diventando un’abituale modalità relazionale “mordi e fuggi”.

Chiaramente quello che succederà non è scontato, ma almeno si può sperare in alcune cose, per esempio gli studiosi puntano sul post-traumatic growth, gli effetti positivi del trauma, tra questi lo sviluppo di un nuovo senso di comunità, collaborazione e solidarietà. Io, dal canto mio, spero in quello che i miei sensi mi fanno percepire: l’immutata voglia di uscire ed incontrarsi in una bella giornata di sole che fa andare contro i divieti e le limitazioni, l’aumento del numero di runner e sportivi “da strada” (non se n’erano mai visti così tanti prima d’ora), la possibilità di partecipare ad un’ampia varietà di webinar che incrementano sapere e conoscenza riducendo le distanze fisiche e ampliando la rete di contatti, lo strano e sconvolgente (per noi adulti disillusi) desiderio dei bimbi di ritornare a scuola, i mille modi diversi escogitati per salutarsi “a distanza”, l’aiuto dei vicini di casa che ti portano la spesa o accompagnano il tuo cane giù a fare la sua passeggiata con bisognini annessi….. ecco!

Tutto questo ad altro ancora mi fa ben sperare, se non in un futuro migliore, quantomeno nell’impossibilità di vedere modificata del tutto la nostra essenza, mi fa sperare nella naturale resilienza dell’individuo, nell’innata spinta verso la vita e la libertà… mi fa sperare nella nostra indistruttibile umanità!

Stefania Grisi

psicologa

Laureata nel 2001 in Psicologia indirizzo dello sviluppo e dell’educazione, presso
l’università La Sapienza di Roma, mi sono successivamente specializzata in Psicoterapia
Individuale e di Gruppo ad orientamento umanistico-esistenziale presso l’ASPIC di Roma
(2008).
Ho maturato le mie prime esperienze più importanti nel settore dell’assistenza sanitaria e
della riabilitazione, come volontaria e tirocinante prima e come consulente
successivamente, svolgendo attività di sostegno psicologico, valutazione dello stress
lavoro correlato e prevenzione al burn-out degli operatori, con particolare attenzione al
settore oncologico.
Ho integrato la mia formazione psicologica con esperienze di sviluppo personale e
tecniche quali meditazione, enneagramma, psicosomatica e training autogeno.
Attualmente svolgo attività libero-professionale a Salerno come psicoterapeuta individuale,
conduttrice di gruppi e psicologa scolastica.

“Ci vuole coraggio per guardarsi dentro ed incontrare i peggiori incubi. Ci vuole coraggio per smettere di accontentarsi, difendersi dalla vita per paura di sbagliare e pretendere la felicità”

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L’uso congiunturale della Costituzione

di Mario Panebianco

Professore di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Salerno

Il 20 ed il 21 settembre si svolgerà il referendum popolare relativo alla approvazione della legge costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Come è noto, la consultazione, originariamente fissata nel mese di marzo, è stata posticipata in ragione della pandemia. Si tratta di un fatto più unico che raro. Nonostante un supplementare e congruo lasso di tempo, da troppo poco è stata riavviata una riflessione pubblica. L’auspicio è che si possa sviluppare un dibattito  non avvinto, come accaduto nel 2016,  dalla logica manichea del “sì” e del “no”, ma finalizzato alla conoscenza ed alla comprensione innanzitutto di un equilibrio costituzionale, che è il vero antivirus da installare nella vita pubblica, anche in periodi così difficili.

Cosa è cambiato in sei mesi, dato che, oggi, il risultato appare decisamente più incerto e rilevanti componenti dell’arco parlamentare sembrano avere cambiato opinione rispetto a quanto votato, in maniera quasi unanime – sic…-, ad ottobre 2019? Anche se non è elegante auto citarsi, mi permetto di riproporre uno stralcio di un articolo – pubblicato ad inizio gennaio su una rivista telematica specialistica– solo per cristallizzare la riflessione indipendentemente dagli eventi successivi.

“Un’ulteriore esperienza meritevole di attenzione è il testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera, recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” – GU n. 240 del 12 ottobre 2019 – relativa alla riduzione a quattrocento deputati e duecento senatori, i primi in proporzione di uno per centocinquantunomila elettori circa – da novantaseimila circa -, i senatori in proporzione di uno per trecentoduemila circa – da centottantomila circa -.

Si tratta di una revisione puntuale che, proprio in quanto tale, paradossalmente ha generato – condivisibili – critiche in ordine alla sua “incompletezza”. La citata riduzione numerica non è censurabile se non per il modo in cui è stata fatta e perché non introduce un nuovo equilibrio costituzionale ma si limita a “ridurre” il precedente. Si è scelta la strada più semplice, ma meno efficace per risollevare le sorti della democrazia parlamentare. E’ stata presentata all’opinione pubblica con l’infelice logica del taglio, della casta e dei costi, ma non risolve il problema dei rapporti tra classe politica e popolo. Senza l’introduzione di garanzie e contrappesi, un cambiamento in astratto lodevole potrebbe rivelarsi inutile e, alla fine, addirittura controproducente. Modificare alcuni articoli senza preoccuparsi dei passi successivi significherebbe stravolgere un equilibrio costituzionale che spesso si è rivelato un argine contro le spinte più controverse e discutibili.

Certo, bisogna chiedersi perché ridurre il numero dei parlamentari sia diventato così facile. Dipende anche dalla perdita progressiva di ruolo e di identità del potere legislativo. Il problema è di rafforzare la democrazia parlamentare evitando che la riduzione diventi una tappa della sua ulteriore delegittimazione, tale da allargare ancora il menzionato solco fra sistema politico-istituzionale e popolo.

La presa d’atto dei rischi del testo approvato dalle Camere è palese in un documento del 7 ottobre 2019 – denominato “Gli impegni dei Capigruppo di maggioranza in tema di riforme della Costituzione, delle leggi elettorali di Camera e Senato e dei Regolamenti parlamentari” – in cui i Capigruppo assumono impegni da iniziare a concretizzare, con le altre forze parlamentari, entro il 2019.

Il primo impegno è nel senso che “la riduzione del numero dei parlamentari incide sul funzionamento delle leggi elettorali di Camera e Senato, aggravandone alcuni aspetti problematici, con riguardo alla rappresentanza sia delle forze politiche sia delle diverse comunità territoriali. Conseguentemente, ci impegniamo a presentare entro il mese di dicembre un progetto di nuova legge elettorale per Camera e Senato al fine di garantire più efficacemente il pluralismo politico e territoriale, la parità di genere e il rigoroso rispetto dei principi della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia elettorale e di tutela delle minoranze linguistiche”.

I successivi impegni vertono l’abbassamento dell’età per il voto al Senato per equiparare i requisiti di elettorato attivo e passivo di Camera e Senato, la modifica del principio della base regionale per l’elezione del Senato e il riequilibrio del “peso dei delegati regionali che integrano il Parlamento in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica, a partire dall’elezione successiva a quella delle nuove Camere in composizione ridotta”, la modifica dei regolamenti parlamentari vigenti “così da adeguarli in modo efficiente al nuovo numero dei parlamentari, garantendo in entrambi i rami del Parlamento alle minoranze linguistiche di potere costituire gruppi o componenti autonome. Nel contempo tale riforma è essenziale per valorizzare il ruolo del Parlamento con interventi tesi ad armonizzare il funzionamento delle due Camere e limitare in maniera strutturale il ricorso alla decretazione d’urgenza e alla questione di fiducia. In particolare si tratta di intervenire anche sulla disciplina del procedimento legislativo allo scopo di dare certezza di tempi alle iniziative del Governo e più in generale ai procedimenti parlamentari, coniugando la celerità dell’esame parlamentare con i diritti delle minoranze”.

L’ultimo impegno è “per dare piena attuazione al punto 10 del Programma di governo”, per avviare un percorso aperto ed inclusivo “volto anche a definire possibili interventi costituzionali, tra cui quelli relativi alla struttura del rapporto fiduciario tra le Camere e il Governo e alla valorizzazione delle Camere e delle Regioni per un’attuazione ordinata e tempestiva dell’”autonomia differenziata”.

In prospettiva costituzionalistica si conferma un trend “congiunturale” di revisione costituzionale, non smentito da una maggioranza parlamentare così ampia “solo” nell’ultimissimo passaggio parlamentare. La legge in questione è sostanzialmente una componente, che nasce parziale, di una politica di riforma tutta da definire e che ha come unico profilo di certezza l’appartenenza alla non convincente esperienza della storia delle revisioni costituzionali organiche. Dal documento dei Capigruppo emerge che le forze di maggioranza sono consapevoli dell’incompletezza della revisione appena approvata, il che corrobora la tesi di una riforma con motivazione sbagliata8, e si impegnano nell’opera di revisione organica della Parte II della Carta repubblicana e di approvazione della legge elettorale”.

Tanto premesso, non può non registrarsi, oggi, la conferma dell’uso congiunturale della Costituzione rispetto ad una revisione che rimane appena “accettabile”, inevitabile espressione dell’attuale classe parlamentare. Ciò perché, in prospettiva costituzionale e di politica costituzionale: la riforma non apre prospettive, non crea rischi di funzionamento concreto delle Camere e di tenuta generale, propone una sfida alla classe politica in quanto un numero minore di senatori e deputati mette ancor più al centro il tema, invero extracostituzionale, della qualità della decisione parlamentare e del suo artefice.

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“Scuola e sicurezza” – parole d’ordine o dicotomia?

Le fondamenta di ogni stato sono l’istruzione dei suoi giovani.

(Diogene di Sinòpe)

E’ il 9 marzo 2020 quando un DPCM trasforma l’Italia in un’unica “zona protetta” ed estende la sospensione delle attività didattiche fino al 3 aprile in tutto il territorio nazionale. Il termine del 3 aprile verrà poi prorogato fino ad arrivare a quello del 14 settembre, giorno in cui le scuole riapriranno i battenti.

In quali condizioni?

Quando il Governo ha deciso di chiudere le scuole, si è immediatamente avuta la percezione che le stesse sarebbero state riaperte solo con l’inizio del nuovo anno scolastico e che i ragazzi avrebbero dovuto abituarsi ad una “nuova normalità” fatta di DAD, distanziamento e mascherine. Ne deriva che la sicurezza in aula coincide il “distanziamento” tra gli alunni, secondo quello che il mondo tecnico-scientifico definisce “metro statico” e “metro dinamico”.

Quindi come devono distanziarsi i ragazzi in aula?

Il verbale CTS (Comitato Tecnico Scientifico) del 28/5/2020 spiega che:

 “Il layout delle aule destinate alla didattica andrà rivisto con una rimodulazione dei banchi, dei posti a sedere e degli arredi scolastici, al fine di garantire il distanziamento interpersonale di almeno 1 metro, anche in considerazione dello spazio di movimento, il metro si calcola dalla bocca di uno alla bocca dell’altro.

Il Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative, specifica che, in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione, per l’anno scolastico 2020/2021:

 “Anche per le attività scolastiche, pur in presenza di specificità di contesto, restano validi i principi cardine che hanno caratterizzato le scelte e gli indirizzi tecnici quali:

1. il distanziamento sociale (mantenendo una distanza interpersonale non inferiore al metro);

2. la rigorosa igiene delle mani, personale e degli ambienti;

3. la capacità di controllo e risposta dei servizi sanitari della sanità pubblica territoriale e ospedaliera.

È necessario quindi prevedere specifiche misure di sistema, organizzative, di prevenzione e protezione, igieniche e comunicative declinate nello specifico contesto della scuola, tenendo presente i criteri già individuati dal CTS per i protocolli di settore, anche facendo riferimento ai documenti di indirizzo prodotti da ISS e INAIL:

1. Il rischio di aggregazione e affollamento e la possibilità di prevenirlo in maniera efficace nelle singole realtà e nell’accesso a queste;

2. La prossimità delle persone (es. lavoratori, utenti, ecc.) rispetto a contesti statici (es. persone tutte ferme in postazioni fisse), dinamici (persone in movimento) o misti (contemporanea presenza di persone in posizioni fisse e di altre in movimento)” (…);

Ad oggi però queste disposizioni sono in parte superate (o derogate) vista l’impossibiltà, in quasi tutti gli Istituti Scolastici, di garantire il famoso “metro”, statico o dinamico che sia. La soluzione trovata, come si legge nel parere del Comitato Tecnico Scientifico contenuto nel verbale del 12 agosto, che è stato reso noto dal Ministero dell’Istruzione con una nota il 13 agosto, è che “Nelle situazioni temporanee in cui fosse impossibile garantire il prescritto distanziamento fisico, …, al solo scopo di garantire l’avvio dell’anno scolastico, in eventuali situazioni (statiche o dinamiche) nelle quali non è possibile il distanziamento prescritto” è possibile una deroga a questa norma, ma solo se si usa la mascherina chirurgica. Si può quindi tornare ai banchi classici e ad aule più piccole che non garantiscono la distanza tra gli alunni. Una deroga “necessaria” prevista per poter permettere l’inizio l’anno scolastico il 14 settembre.

Si sarebbe potuta evitare la deroga mettendo in sicurezza “fisica” gli Istituti?

Ribadendo che la scuola è stata chiusa a febbraio (a singhiozzo) e poi definitivamente a marzo, si può facilmente dedurre che ci sarebbe stato tutto il tempo necessario per pensare a valide soluzioni al problema del distanziamento. Una di queste è certamente la messa in sicurezza degli Istituti. Si rende necessario specificare che il problema del rinnovamento del patrimonio scolastico non va ricercato negli ultimi mesi di Pandemia (che pure lo ha amplificato) ma molto più indietro nel tempo, quando si è deciso che la Scuola (come la Sanità) dovesse essere demansionata e ridotta a classi pollaio con livello di istruzione mediocre in ambiente fatiscente.

Forse perché, in modo del tutto miope, chi ha governato il Paese negli ultimi 20 anni (almeno) ha pensato che la cultura, poiché non direttamente collegata ad attività produttive tangibili, non dà un immediato riscontro economico e conseguente variazione di PIL.

Nessun errore di valutazione può essere ritenuto più grossolano di questo!

Sul Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 262 dell’11 novembre 2014 è stata pubblicata la Legge 164/2014 di conversione del D.L. 133/2014 recante “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive”. Il cosiddetto decreto “sblocca-Italia” che conteneva alcune deroghe per gli interventi di messa in sicurezza degli edifici scolastici, con particolare riferimento alla fase di affidamento dei lavori, si stanziavano fondi finanziati dalla BEI allo scopo di ottenere un rinnovamento del patrimonio e un rilancio dell’economia, ancora provata dalla crisi del 2008. Da allora quel patrimonio (salvo pitturazioni di rito) è rimasto intonso e la crisi è ancora una compagna inseparabile dell’economia Italiana.

Venendo a oggi, il 18 giugno 2020 (sic!), il Ministero dell’Istruzione dirama una nota dal titolo “Scuola, l’edilizia scolastica diventa più semplice e veloce” che collaziona una serie di norme esistenti per poter inter venire celermente sulla messa in sicurezza:

Incarichi di progettazione e connessi – pareri, visti e autorizzazioni sui progetti

Legge 27 dicembre 2019, n. 160

Articolo 1, comma 259. […] per accelerare gli interventi di progettazione, per il periodo 2020-2023, i relativi incarichi di progettazione e connessi previsti dall’articolo 157 del codice di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n.50, sono affidati secondo le procedure di cui all’articolo 36, comma 2, lettera b), fino alle soglie previste dall’articolo 35 del medesimo codice per le forniture e i servizi.

Articolo 1, comma 260. I pareri, i visti e i nulla osta relativi agli interventi di edilizia scolastica sono resi dalle amministrazioni competenti entro trenta giorni dalla richiesta, anche tramite conferenza di servizi, e, decorso inutilmente tale termine, si intendono acquisiti con esito positivo.

Semplificazioni per emergenza Covid-19

Decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 in corso di conversione

Contributo ANAC

Articolo 65. Le stazioni appaltanti e gli operatori economici sono esonerati dal versamento dei contributi di cui all’articolo 1, comma 65, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 all’Autorità nazionale anticorruzione, per tutte le procedure di gara avviate dalla data di entrata in vigore della presente norma e fino al 31 dicembre 2020.

Pagamento degli stati di avanzamento lavori (SAL)

Articolo 232, comma 4. Al fine di semplificare le procedure di pagamento a cura degli enti locali per interventi di edilizia scolastica durante la fase emergenziale da Covid-19, per tutta la durata dell’emergenza gli enti locali sono autorizzati a procedere al pagamento degli stati di avanzamento dei lavori anche in deroga ai limiti fissati per gli stessi nell’ambito dei contratti di appalto.

Poteri commissariali di sindaci e presidenti di province e città metropolitane

Decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2020, n. 41

Articolo 7-ter, comma 1.

1. Al fine di garantire la rapida esecuzione di interventi di edilizia scolastica, anche in relazione all’emergenza da COVID-19, fino al 31 dicembre 2020 i sindaci e i presidenti delle province e delle città metropolitane operano, nel rispetto dei principi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, con i poteri dei commissari di cui all’articolo 4, commi 2 e 3, del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55.

2. [Articolo 4, commi 2 e 3, del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55.

3. Per le finalità di cui al comma 1, ed allo scopo di poter celermente stabilire le condizioni per l’effettiva realizzazione dei lavori, i Commissari straordinari […] provvedono all’eventuale rielaborazione e approvazione dei progetti non ancora appaltati, operando in raccordo con i Provveditorati interregionali alle opere pubbliche, anche mediante specifici protocolli operativi per l’applicazione delle migliori pratiche. L’approvazione dei progetti

da parte dei Commissari straordinari, d’intesa con i Presidenti delle regioni e delle province autonome territorialmente competenti, sostituisce, ad ogni effetto di legge, ogni autorizzazione, parere, visto e nulla osta occorrenti per l’avvio o la prosecuzione dei lavori, fatta eccezione per quelli relativi alla tutela di beni culturali e paesaggistici, per i quali il termine di conclusione del procedimento è fissato in misura comunque non superiore a sessanta giorni, decorso il quale, ove l’autorità competente non si sia pronunciata, l’autorizzazione, il parere favorevole, il visto o il nulla osta si intendono rilasciati, nonché per quelli di tutela ambientale per i quali i termini dei relativi procedimenti sono dimezzati.

4. Per l’esecuzione degli interventi, i Commissari straordinari possono essere abilitati ad assumere direttamente le funzioni di stazione appaltante e operano in deroga alle disposizioni di legge in materia di contratti pubblici, fatto salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, nonché dei vincoli inderogabili derivanti dall’appartenenza all’Unione europea. Per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi, i Commissari straordinari, con proprio decreto, provvedono alla redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli anche con la sola presenza di due rappresentanti della regione o degli enti territoriali interessati, prescindendo da ogni altro adempimento.].

Deroghe al Codice dei contratti:

a. articoli 32, commi 8, 9, 11 e 12, e 33, comma 1 (riduzione o azzeramento dei termini per la stipula e l’approvazione dei contratti di appalto per i servizi e i lavori di edilizia scolastica);

b. articolo 37 (deroga al ricorso alle centrali di committenza per gli appalti di edilizia scolastica);

c. articolo 60 (riduzione dei termini minimi per la ricezione delle offerte nelle procedure aperte sopra soglia comunitaria);

d. articoli 77 e 78 (deroga alle procedure di nomina delle Commissioni giudicatrici per gli appalti di lavori di edilizia scolastica);

e. articolo 95, comma 3 (deroga al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e possibilità di utilizzo del criterio del prezzo più basso per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura anche superiori a 40.000 euro);

f. possibilità di ricorso all’art. 163 (procedure in caso di somma urgenza e di protezione civile) fino a 200.000,00 euro e possibilità di ricorso all’art. 63 (procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara) fino alla soglia comunitaria.

Occupazioni d’urgenza ed espropriazioni

Articolo 7-ter, comma 3.

3. Per le occupazioni di urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi di edilizia scolastica, i sindaci e i presidenti delle province e delle città metropolitane, con proprio decreto, provvedono alla redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli anche con la sola presenza di due rappresentanti della regione o degli enti territoriali interessati, prescindendo da ogni altro adempimento. Il medesimo decreto vale come atto impositivo del vincolo preordinato all’esproprio e dichiarativo della pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dell’intervento.”

Senza voler organizzare in così poco tempo (e sarebbe urgentissimo) un Piano Strutturale di Rigenerazione delle scuole, intese come involucro (o guscio) che contiene il bene più prezioso di un Paese, sarebbe stato utile nominare, da parte del Governo, uno o più (in casi del genere sì che occorrono) Commissari Straordinari (tecnici non politici) per la gestione dell’Emergenza scolastica legata alla pandemia, con il preciso compito di realizzare in ogni Istituto un piano di azione concreto che sarebbe potuto andare dall’ampliamento delle aule alla ricerca di nuovi spazi da assegnare all’Istruzione (come previsto dalle Norme vigenti), rendendoli idonei allo scopo, ma viene da sé che si è troppo a ridosso dell’apertura e ciò che non è stato fatto fino ad ora, con ogni probabilità non si farà.

Così interviene su La Repubblica il segretario della Flc Cgil: “Il passaggio è importante, soprattutto sulla questione delle classi sovraffollate, ma bisogna essere realistici, i problemi restano. In queste ultime settimane serve uno scatto ulteriore su organici e spazi, sulla scuola ci deve essere una presa di responsabilità dell’intero governo”

E un membro del Cts dice al Corriere “E’ stato deciso, e noi del Cts siamo pienamente d’accordo, di porre la scuola in cima alla scala dei valori sociali e di darle priorità assoluta. Siamo consapevoli che il rischio di riaprire c’è eccome, ma anche questo rischio si può modificare. Intervenendo sulla struttura delle classi in modo da garantire il distanziamento tra gli studenti.”

Il mondo della scuola è un deserto, di idee e di organizzazione, ma sarebbe necessario provarci, in questi pochi giorni che restano prima dell’apertura, si dovrebbe fare in modo che le parole “scuola” e “sicurezza” siano parole d’ordine e non semplice dicotomia.

Rosaria Chechile

https://www.linkedin.com/in/rosaria-chechile-19b4ab19/

Sinopenauta

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MES, CORONABONDS, OMT QUALE STRADA PER EVITARE DEFICIT E USCIRE DALL’EMERGENZA

“Nell’ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a salvaguardare l’euro con ogni mezzo. E credetemi, sarà sufficiente”

[Mario Draghi, 26 luglio 2012]

Chi ricorda quegli anni, connotati dal lungo strascico della crisi economico finanziaria abbattutasi a livello pressoché globale a cavallo degli anni 2007 e 2008, ricorderà anche il clima di generale incertezza politica dilagante nell’eurozona periferica che portò a stravolgimenti sul piano non solo della geografia parlamentare, ma anche sociale e macroeconomico.

La fine del governo Berlusconi IV e l’avvento del tanto vituperato Mario Monti e di quella che fu definita becera dittatura tecnocratica, la crisi greca, la questione cipriota, i paesi P.I.I.G.S. e i loro “debiti tossici”.

Ma siamo così convinti che tutto ciò che fu fatto in quegli anni per far fronte a una crisi vera sia tutto da buttare nella pattumiera del dimenticatoio o addirittura da bollare a priori come inadeguato in nome di vacue barricate ideologiche (o presunte tali)?

Siamo davvero convinti che alla luce della totale, conclamata, arrogante inadeguatezza di chi ci governa a far fronte anche a una banale lista della spesa, i rimedi esogeni che ci vengono proposti (attivazione del MES in primis) non si rivelino occasioni migliori per uscire da questo impasse?

L’impatto di una spesa sanitaria cresciuta, purtroppo, esponenzialmente per le ben note ragioni che attanagliano il pianeta e una conseguente mortificazione del tessuto produttivo nazionale, si possono realmente affrontare ricorrendo al credito dei mercati?

Per rispondere, anzi, magari, diciamo per chiarirci un po’ le idee, facciamo un passo indietro.

Il 26 luglio del 2012, Mario Draghi, allora presidente della BCE tiene un discorso davanti alla “Global Investment Conference” consegnato alla storia come “discorso di Londra” in cui non faceva altro che prendere atto della circostanza che la BCE riteneva inaccettabili i premi per il rischio che la paura della reversibilità della valuta comune imponeva ad alcuni paesi membri in difficoltà macroeconomica.

Per la fredda cronaca, l’intera eurozona periferica era sotto attacco speculativo in quel momento.

Tale situazione, accentuata proprio dagli attacchi speculativi sempre più frequenti, dall’instabilità politica e dalla necessità (divenuta ormai improrogabile) di armonizzare le politiche finanziarie comunitarie spinse il legislatore europeo ad adottare misure drastiche come, appunto, un fondo concepito sulla falsa riga del FMI (Fondo Monetario Internazionale) con una capitalizzazione abnorme (700 miliardi!) per prevenire eventuali situazioni di insolvenza di Stati membri.

Ma che si voleva intendere esattamente per insolvenza?

Brutalizzando il discorso, quando in politica monetaria si parla di “insolvenza” si fa riferimento generalmente a tre fenomeni: bankrupcy, failure to pay, restructuring (plausibilmente lo scenario più comune quando si tratta di debiti sovrani).

Ebbene, fatta chiarezza sugli strumenti concepiti per far fronte ad una crisi epocale come quella di circa dieci anni fa, torniamo al presente. Nel presente, per l’appunto, l’Italia in che condizioni si trova?

Ad onor del vero, l’Italia non è in nessuna delle situazioni accennate. Ma sta di fatto che dall’inizio dell’emergenza sanitaria, per varie e tante motivazioni che spaziano da politiche economiche scellerate messe in campo dai governi gialloverde e giallorosso (il giallo guarda caso c’è sempre quando si parla di sfascio) a fattori pregressi che affondano le radici negli ultimi 30 anni di svendite di Stato e politiche schizofreniche, l’Italia si trova ad affrontare un debito pubblico lievitato al 136% del PIL (i debiti pubblicidi Germania, Danimarca ed Olanda sono pari al 59%, 33% e 49% dei rispettivi PIL).

Ciò posto, a prescindere dai giudizi di merito sulla gestione dell’emergenza pare evidente che i Paesi virtuosi dal punto di vista del merito creditizio (declinato secondo i rispettivi giudizi di rating) non abbiano la minima intenzione di sobbarcarsi i costi degli sprechi altrui sovvenzionando quell’invenzione di qualche giornalista chiamata “coronabonds”.

Eh già, i coronabonds, o eurobonds o bonds europei o James Bond (che sarebbe più credibile) che cosa sono con esattezza?

Nel contesto della crisi dei debiti sovrani nell’area monetaria euro (a partire dall’estate 2011) gli eurobonds (o anche stability bond) sono stati concepiti come un ipotetico meccanismo solidale e perequativo di distribuzione dei debiti a livello europeo.

Il meccanismo funziona attraverso la creazione di obbligazioni del debito pubblico dei Paesi facenti parte dell’eurozona, da emettersi a cura di un’apposita eventuale agenzia dell’Unione Europea, la cui solvibilità sarebbe garantita congiuntamente dagli stessi Paesi dell’eurozona.

Detta così sembra una soluzione perfetta. L’avvento della tanto agognata “Europa dei popoli”, solidale ed efficiente, dove chi è più ricco sostiene chi è più povero.

Quindi da dove nascono polemiche, dubbi e perplessità?

Ecco, se davvero l’intenzione del legislatore Europeo fosse quella di creare un vero bilancio europeo, allora nulla quaestio: gli eurobonds ne sarebbero la naturale ed organica conseguenza.

Ma se, come paventato, si pretendesse di utilizzare tale strumento per fronteggiare, una tantum, una situazione di natura meramente congiunturale (se non emergenziale), allora siamo alla fantaeconomia.

Gli eurobonds sarebbero lo strumento naturale di quotazione del debito comune europeo, qualora esistesse! C’è, però da prendere atto che dal momento in cui questa idea viaggia a distanza sesquipedale dalla realtà economica contemporanea, restano tante, troppe questioni aperte, irrisolte e, ad oggi, irrisolvibili.

A cosa andrebbero ancorati? Quale sarebbe il sottostante? Chi li garantisce? In che misura? Con quale scadenza?

Immaginate di porre queste domande a chi ci governa.

E, dunque, arriviamo alle questioni poste in apertura dell’articolo: perché non valutare soluzioni esogene? Perché bollarle come “dannose per il popolo italiano”?

Proviamo a dare una lettura alternativa ai coronabonds.

La questua che il nostro governo sta implorando, invocando l’emissione di bond europei, affonda le proprie ragioni nel fatto che i Paesi che fanno richiesta di aiuto al MES devono accettare di rispettare una serie di indicazioni da parte degli Organismi europei necessarie a risanare la propria situazione economica. Tutto ciò, tra l’altro, sotto il controllo della temuta Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale) che vigila sull’effettiva realizzazione delle riforme e dei cambiamenti nazionali richiesti dall’Europa.

Ed ecco che in maniera ripetitiva quanto rassicurante  insorgere i sovranisti che recriminano per una presunta invasione nella politica interna dei paesi in difficoltà da parte della tirannica Europa e rivendicano le “coraggiose” ed “innovative” riforme messe a punto negli ultimi anni.

Le riforme. Uno dei termini più abusati e più violentati della storia della lingua italiana dal Manzoni ad oggi.

Quali riforme? Quali messe in campo dagli ultimi governi e quali eventualmente imporrebbe la Troika?

Pare che il nodo della questione sia proprio questo. Vale a dire, dopo aver approvato le più bieche e miopi riforme che la politica economica italiana abbia subito in oltre trent’anni, dopo aver regalato l’elemosina del reddito di cittadinanza, dopo aver architettato “quota 100” (la riforma delle pensioni più cervellotica da quando la gente andava in pensione con 18 anni 6 mesi e un giorno di contributi), dopo il no alle grandi infrastrutture, dopo aver avanzato la candidatura per assurgere a “Cuba del terzo millennio”, chi ci governa pretende di mantenere gli sprechi e riversare con un meccanismo poco chiaro (anche a loro) la spesa per l’emergenza su altri. Solita visione a metà tra il provinciale e l’autarchico verrebbe da dire.

Allora la domanda sorge spontanea: in cosa consisterebbero, invece, queste “spaventose” invasioni della Troika nelle scelte di politica economica nazionale?

Un’idea vaga, ma abbastanza aderente al vero è facilmente immaginabile. Ad esempio, eliminare il reddito di cittadinanza? Eliminare “quota 100”? Tagliare drasticamente le pensioni? Rafforzare i principi cardine del Jobs Act e della Legge Fornero in chiave liberista? Bloccare gli adeguamenti ISTAT per gli stipendi dei dipendenti pubblici?

Ma nella proposta al vaglio dell’Eurozona è un Mes “depotenziato” o Pandemic crisis support, si tratterebbe di un prestito pari al 2% del Pil italiano, vincolato alla spesa sanitaria. La differenza principale con il più famigerato Mes  è che in questo caso non sono previsti vincoli particolari di bilancio né memorandum da firmare.

Siamo sicuri che in nome di quelle accennate barriere ideologiche dietro cui si difendono provvedimenti insensati non si nascondono solo sprechi che, giocoforza, dovranno pagare le generazioni future?

Gli sprechi, la mancanza di liquidità per far fronte all’emergenza.

Emergenza drammatica, sanitaria e sociale, che ha bisogno spasmodico di idee vere e fagocita tanta, tanta liquidità.

Nel tentativo di creare un connubio vincente tra idee valide e sostenibili e “tanta liquidità”, già dal lontano 2012, per quei Paesi che avessero avviato un programma di aiuto finanziario o un programma precauzionale con il Meccanismo Europeo di Stabilità, il Consiglio Europeo ha introdotto le c.d. “O.M.T.” (Outright monetary transactions).

In maniera lucida e lungimirante fu creato uno strumento, le OMT, che consentisse alla BCE di acquistare direttamente titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata (c.d. requisito di condizionalità).

La principale peculiarità di queste operazioni è che con esse la BCE riceverebbe lo stesso trattamento di un qualsiasi creditore privato, ottenendo uguale remunerazione e non potendo vantare alcuna priorità in caso di ristrutturazione del debito.

La liquidità immessa nel mercato a ragione dell’acquisto dei titoli di Stato verrebbe pienamente sterilizzata, cioè riassorbita (ad esempio vendendo altri titoli) per evitare che queste operazioni interferiscano con la politica monetaria che mira a controllare il tasso di inflazione.

Il MES a condizionalità limitata, abbinato alle OMT, può rappresentare uno strumento in realtà molto efficace e vantaggioso, dunque, per chi ne usufruisce.

Il motivo è presto spiegato. L’eventuale ricorso ad una linea di credito gestita dal MES da parte di un Paese come l’Italia in questo momento storico, infatti, sbloccherebbe la possibilità di attivare il programma OMT.

Esso garantirebbe all’Eurotower l’acquisto di una quantità pressoché illimitata di titoli di Stato con maturità da 1 a 3 anni andando ad abbattere il rendimento dei Bond nazionali, permettendo al governo di ottenere liquidità immediata e senza costi per fronteggiare l’immensa spesa sanitaria e sociale a cui siamo sottoposti.

Probabilmente, anche se impopolare, sarebbe più sensato accedere ai fondi del MES, attuando riforme strutturali necessarie e, successivamente, dare la possibilità alla BCE di acquistare (anche sul secondario) titoli che garantirebbero la liquidità necessaria a breve termine per scongiurare emergenza e, solite quanto stucchevoli, misure da finanziare a debito.

avv. Giulio Elefante

Sinopenauta

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COVID-19 – QUANDO UN’EMERGENZA PUO’ DIVENTARE UN’OPPORTUNITA’

ITALIANI BRAVA GENTE?

Noi italiani siamo un popolo che ama e rispetta le proprie tradizioni, più di quanto la xenofobia di taluni ignoranti voglia farci credere. È proprio grazie a tutte queste diversissime tradizioni che il nostro paese catalizza da millenni l’interesse dei popoli di mezzo mondo.

Tra tante tradizioni c’è quella dei detti e dei proverbi, e tra questi c’è il detto che ogni quattro anni puntualmente ripeschiamo “anno bisesto anno funesto”.

Certamente abbiamo onorato l’appuntamento anche per il 2020, ma febbraio neppure è finito che l’emergenza coronavirus ha acceso discussioni sulla funestìa di questa bisestilità. E neppure a metà marzo già si ammirano due fazioni prevalenti: da un lato c’è chi sposa l’affermazione: “un anno talmente funesto che è già ad inizio 2020 siamo al punto più funesto possibile”, mentre al lato opposto si contrappone chi afferma “vedrete cosa ci aspetta nei prossimi 9 mesi, siamo solo all’inizio”.

Sempre nel rispetto la tradizione culturale italiana è proprio il caso di affermare: “Ai posteri l’ardua sentenza”[1]


[1] Manzoni A. – “Cinque Maggio”

UNA ROUTINE NORMALE

Nel cuore dell’emergenza in mezzo a detti, fazioni e posteri sono due le speranze principali che coltiviamo:

1.   che di tutto questo non rimanga nulla di epocale, come già è accaduto con tutti gli allarmi virus precedenti;

2.   di recuperare la normalità di prima quando quest’emergenza sarà superata. Ma si tratta di una speranza vana perché poco tornerà come prima. Molto cambierà.

Dagli organi di governo arrivano doverose restrizioni a normali libertà, che valgono il bene di tutti ma stravolgono le routine di ciascuno di noi. Non è possibile pensare che tutto rimanga normale in questa fase e – pur rispettando tutte le restrizioni – in tanti ci siamo dati da fare per creare una nuova routine. Ma l’improvvisa assenza di normalità ci ha obbligati a vedere le cose in modo diverso, obbligandoci a cambiare verso nuovi schemi per combinare tra loro nuove e differenti priorità. Un esempio banale (ma solo in apparenza) è che anche dopo questa fase di emergenza ci dovremo tutti abituare a guanti e mascherina.

Evitare danni per la salute (propria e collettiva), proteggere i propri cari (e solidarietà da vicinato), limitare danni economici (lavoro e impresa) sono le tre priorità che si alternano sul podio scambiandosi le tre posizioni.

Siamo appena usciti dal decennio del mito del multitasking per cui è legittimo pensare che disponiamo tutti di competenze adeguate per affrontare questo scambio tra priorità. Più che altro è probabile che potremmo riceverne frustrazione non tanto da questo scambio tra tre priorità, quanto dalla limitazione della scelta a solo questi tre. E questa frustrazione viene aggravata anche dall’assenza di certezze su una scadenze entro cui tutto ciò sarà terminato. 

CAMBIAMENTI e CAMBIA MENTI

Cambiare per scelta è un conto ma dover cambiare per forza ci costringe a dover cominciare a vedere le cose in modo completamente diverso. Questo fatto genera però riluttanza, resistenza e talvolta anche conflitti.
Il cambiamento è una delle componenti della vita in cui qualche volta siamo noi a fare la scelta ma in tutte le altre volte è qualcun altro a scegliere per noi: una madre, un professore, un giudice, la morale, … Piegarsi alla scelta che altri hanno fatto per noi è un esercizio di amore e convivenza civile.    
Affrontare un cambiamento scelto da qualcun altro ci offre in ogni caso l’opportunità di valutare se quella scelta debba essere esclusivamente una trappola oppure un’opportunità.

Ognuno sceglie come re-AGIRE, ma sulla scelta di chi ha stabilmente limitare danni economici come priorità 1 non vi è alcun dubbio: la scelta è di opportunità.
Non importa quali siano il settore merceologico, le condizioni ed il contesto, ma la persona che ha da limitare danni economici è proprio in questi frangenti che sfodera l’attitudine all’opportunità. Essa non avrà distrazioni, limiti di orario, limiti di spazio e punterà il suo focus sull’opportunità del cambiamento. Dopotutto è proprio questa l’attitudine chiave che trasforma una persona da lavoratore dipendente a lavoratore indipendente/imprenditore. Chi approccia il cambiamento come sinonimo di opportunità si adopera più facilmente a mantenere una mente che cambia, adattandosi a condizioni che mutano in nuove. In una parola questa attitudine è la resilienza.

Come tutte le fasi di emergenza anche questa che stiamo vivendo rende disponibili condizioni ottimali per cambiamenti di routine e sviluppo di nuove normalità. Realisticamente poche persone si stanno permettendo il lusso di essere completamente in vacanza dal lavoro e mettono in atto azioni per evitare il fermo totale dell’attività lavorativa. Tra queste c’è chi è riuscito ad individuare tutte le soluzioni utili per ottimizzare la situazione senza avere danni economici significativi. Di converso ce ne sono alcuni che non riescono ancora ad attuare soluzioni sia per l’assenza di possibilità sia per assenza di idee, complice anche una coriacea resistenza al cambiamento.

STRUMENTI PER NUOVE ROUTINE

Quando esse sono coltivate possono persino diventare competenze, da poter sfoggiare nella propria carriera professionale e nel proprio CV. Coltivare significa avere un atteggiamento proattivo, così da attendersi un effetto conseguente ad un modo causale.

Tuttavia le attitudini crescono anche se non le si coltiva. Esse possono svilupparsi nel tempo (solitamente più lungo) a seguito del modo casuale. In questo caso è indispensabile un’altra attitudine: la curiosità che punta tutto sull’apertura al nuovo attraverso atteggiamenti partecipativi quali osservazione ed ascolto. Insomma coltivare le attitudini corrette come curiosità e proattività accelera la crescita e amplifica le opportunità.

Restando in tema di attitudini sviluppare la resilienza in modo causale necessita una trattazione più articolata che qui non ha spazio. Di converso qui è possibile sviluppare lo sviluppo casuale della resilienza descrivendo alcuni dei principali strumenti ad alto potenziale di sviluppo. Una sana curiosità per esplorare questi strumenti può aiutare ad accelerare la ottimizzazione e la innovazione delle routine, creandone di nuove più funzionali e redditizie. Si tratta di strumenti ad uso sia collettivo (dipendenti) sia individuale (autonomi) che possono aiutare lo sviluppo dell’’organizzazione del lavoro.

Capiamoci: non occorre necessariamente una pandemia per utilizzarli, ma visto il momento è utile farci un pensierino anche ora.

Per questa ragione nei prossimi giorni sarà disponibile un dossier – composto di 7 parti – che descrive i principali strumenti utili allo sviluppo di nuove routine.

Il primo strumento riguarda la regina di tutti questi strumenti di sviluppo e di miglioramento della performance: la formazione o manutenzione delle competenze.

Buona vita.

[1] Manzoni A. – “Cinque Maggio”

Gianluca Bertone

Bertonehr.com

Sinopenauta

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DALLE DOMENICHE A PIEDI ALL’ “IO RESTO A CASA” L’Italia al tempo delle crisi

1973. Giorno dello Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria attaccano Israele. Torna la guerra in un territorio già martoriato da decenni. I paesi dell’OPEC decidono di sostenere l’azione di Egitto e Siria con robusti aumenti del prezzo del barile ed embargo nei confronti dei paesi maggiormente filo-israeliani. È la guerra del Kippur, che segna l’inizio della fine del boom economico incominciato negli anni ’60. È la prima crisi petrolifera.

Le conseguenze per l’Italia furono pesantissime. Il termine “austerity” prima sconosciuto iniziò a riecheggiare sui rotocalchi di tutto il paese. Era l’Italia che per la prima volta dalla fine della guerra deve fare i conti con la propria fragilità. Per la prima volta si iniziò a parlare di “Austerity economica”, di risparmio energetico, di centrali nucleari. Era l’anno delle domeniche a piedi, della fine anticipata dei programmi televisivi e della riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale.

1979. Siamo in Iran, anzi, per qualche momento ancora in Persia, dove il regno dello Scià Mohammad Reza Pahlavi è al suo passo d’addio. Tutte le forze antimonarchiche sostenute dal clero sciita si stanno stringendo intorno alla figura carismatica e controversa dell’ayatollah Khomeyni, in esilio a Parigi dal 1963.

A due passi c’è l’Iraq, che in quel momento si regge su un delicatissimo equilibrio tenuto in piedi dalla nascente dittatura di Saddam Hussein. La guerra è alle porte, la situazione nella polveriera mediorientale precipita di nuovo insieme alla produzione di petrolio.

Peggio che nel 1973 l’occidente si scopre fortemente dipendente dai paesi produttori di petrolio a causa del sempre crescente fabbisogno energetico: sulla costa orientale degli USA, la benzina divenne così difficile da trovare che gli automobilisti passarono ore in lunghe file, attendendo di poter acquistare il rifornimento per pochi giorni. Si torna alle domeniche a piedi, si torna a parlare di efficientamento energetico e di fonti alternative.

1987. 19 ottobre. L’economia veleggia come mai prima di allora. Sono gli anni ’80 nel loro pieno splendore, nel pieno dell’edonismo reaganiano, gli anni delle contrattazioni di borsa ormai a portata di tutti, i primi cellulari, la prima bolla immobiliare in Giappone, gli anni patinati di Madonna e dei Duran Duran, gli anni del turbo capitalismo stile Chicago. Eppure quell’anonimo lunedì di metà ottobre sveglia tutti da un sogno fatto di crescita oltre ogni misura. È il lunedì nero delle borse. I mercati finanziari di tutto il mondo piombano d’un tratto nell’incubo di una nuova crisi del ’29. L’indice Dow Jones a Wall Street crollava del 22,6%, una percentuale più che doppia del peggiore calo accusato proprio dalla borsa americana in un’unica seduta con la crisi finanziaria di fine anni Venti. I crolli si propagarono a tutte le borse, con il FTSE 100 di Londra a chiudere la giornata a -26,4%, Madrid a -31%, Sidney di un catastrofico -41,8% e Hong Kong a -45%, solo a Piazza Affari il calo è contenuto: -6,4%. Sul piano più propriamente economico e finanziario, non vi fu alcuna causa ad avere provocato i crolli. L’economia americana andava, eccome se andava (siamo sempre negli anni della Reaganomics), quella mondiale pure. E Wall Street correva proprio in virtù della prima fase di globalizzazione finanziaria, avviata sotto la presidenza Reagan e assecondata in Europa da Margaret Thatcher. E proprio questo rese quel crollo del tristemente famoso “lunedì nero di Wall Street” un caso unico. Fu il segno che l’informatizzazione avanzata fosse un’arma a doppio taglio, lungi dalla perfezione, chiudendo bruscamente le transazioni ad un valore minimo preimpostato dai trader.

1992. L’anno che verrà ricordato per tangentopoli, per la fine della prima guerra nel Golfo, per l’inizio del disgregamento della Jugoslavia, per Maastricht e per il cambio di rotta imposto al mondo con l’elezione di Bill Clinton dopo 12 anni di potere del GOP. Ma è anche l’anno di svolta nelle politiche monetarie continentali che per la prima volta si trovano a dover fronteggiare l’onda di speculazioni massicce sui “currency markets”. È quello che verrà ricordato come mercoledì nero, il 16 settembre 1992. Lira e Sterlina svalutate in doppia cifra e costrette ad uscire dallo SME. Giuliano Amato tiene un discorso senza mai pronunciare la parola “svalutazione”, ed eccoci, dopo la patrimoniale del 6 per mille imposta pochi mesi prima, a pagare la fragilità di una economia che doveva adattarsi continuamente alle conseguenze di una gestione del paese sconsiderata, miope e orientata al breve termine, frutto di una incompetenza della classe politica piuttosto diffusa, allora come oggi.

2000. Stavolta non c’è nessuno scenario di guerra, nessuna crisi e, nell’immaginario collettivo, il terrorismo è ancora qualcosa di lontano, di circoscritto a quella polveriera mediorientale. Ancora, già, almeno fino a quel maledetto 11 settembre del 2001 che cambierà l’occidente per sempre. Fino a quel momento, però, l’economia ha trovato nuova linfa, un nuovo settore è esploso fino, inevitabilmente, a scoppiare. Scoppiare, come una bolla di sapone. È quello che passerà alla storia come la crisi delle “dot-com”. Stavolta è un altro fattore esogeno a mandare in crisi quell’equilibrio raggiunto in maniera così agognata. Stavolta la paura tocca un mondo che mai prima di allora si sarebbe immaginato potesse crollare. Secondo la teoria delle dot-com, la sopravvivenza di una società in questo settore dipendeva dall’espansione della sua base di clienti il più rapidamente possibile, anche se a costo di grandi perdite annuali, la frase “espandersi o fallire” è il motto del momento. Il 10 marzo succede l’inevitabile. Alcuni sono costretti a chiudere, altri colossi perderanno fino all’80% della capitalizzazione. Lo shock sarà il prezzo pagato dagli investitori per la rapidità dell’aumento del valore delle azioni in quell’ambito.

2003. L’economia cinese cresce a ritmi forsennati. Mentre la vecchia Europa arranca alle prese con miopi politiche deflazioniste il PIL cinese registra aumenti in doppia cifra. Come un fulmine a ciel sereno Standard &Poor’s lancia l’allarme: l’economia cinese sta rallentando. Stavolta non c’è nessuno speculatore senza scrupoli, nessun terrorista, nessuna crisi. Per la prima volta da quella che nei lontani anni 50 riecheggiò in Europa come “febbre asiatica”, i telegiornali ingolfati dalle notizie che arrivano dall’Iraq, pronunciano la parola “pandemia” quanto basta per gettare il pianeta nel panico. Al governo di Pechino quell’inverno costerà mille morti e 25 miliardi di dollari (al cambio) bruciati in pochi giorni. L’ennesima “prima volta” per l’occidente che si rende conto che ciò che accade dall’altro lato del globo non è poi così lontano.

Ebbene, a guardare da lontano tutti gli avvenimenti che hanno condizionato il nostro modo di vivere e di vedere le cose, ci si pone la seguente domanda: abbiamo davvero vissuto situazioni emergenziali, oppure siamo stati ciclicamente vittime di un enorme “grande fratello” di orwelliana memoria o di un “Thruman show” globale, con tutti, o quasi tutti coinvolti?

E già, poiché tralasciando volontariamente, rispetto a questa analisi, i fatti che hanno portato al crollo globale del 2007 (dovuto appunto a fattori endogeni al sistema economico), ci sono e ci sono stati avvenimenti più o meno previsti o prevedibili che hanno rimesso in gioco i valori di ognuno, il modo di vedere il mondo, il modo di vedere sé stessi e chi ci sta accanto, il modo di guardare alle istituzioni.

Nel 73 e nel 79 due dannate guerre.

Nell’ 87 sistemi automatici inadeguati (la leggenda vuole la causa in una tempesta su Londra).

Nel 92 l’avidità di uno speculatore miliardario.

Nel 2000 un mondo redditizio e sconosciuto (troppo) ai più.

Nel 2003 una maledetta epidemia.

E l’Italia?… in tutto questo?…

Già, l’Italia?? …

Si è accennato di come l’Italia, o meglio, gli italiani, un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi e pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori (così descritti sul fronte del Palazzo della Civiltà, noto ai più come Colosseo quadrato), abbiano affrontato le crisi congiunturali che il mondo gli ha parato davanti.

Ma ora? Che succede ora?

2020. “Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta”. Così il britannico Christian Jessen, medico, scrittore e presentatore televisivo con una battuta commenta l’emergenza covid-19 e ridicolizza le abitudini italiane estremizzando atteggiamenti più o meno realistici, ma che poco c’entrano con la decisione del Governo di adottare provvedimenti restrittivi per evitare l’avanzare del coronavirus.

Ognuno di noi si è posto la domanda se il motto tanto caro a Conte “io resto a casa” fosse eccessivo e se in una scala di valori, debba considerarsi preminente il diritto alla salute – condensato in uno slogan- o la tutela delle libertà civili. E dare la risposta a tale interrogativo può rappresentare la chiave di svolta ai dubbi di ciascuno.

Se si guarda a Paesi (v. Gran Bretagna o Germania) che ancora oggi in una sorta di negazionismo propendono per invertire la scala di valori, quasi per ritornare alla selezione della specie di Darwiniana memoria, ritengono di non dovere attivarsi con misure atte a prevenire il contagio, così si esprime il primo ministro Boris Johnson “molte famiglie perderanno i loro cari prima del tempo” ma il governo inglese non ha disposto particolari azioni volte a limitare la diffusione del virus (scuole, Università e fabbriche, ad esempio, restano aperte), anche se sconsiglia spostamenti e assembramenti.nello stesso senso la cancelliera tedesca Angela Merkel nella sua prima conferenza stampa sulla epidemia di coronavirus dichiara che “gli esperti affermano che tra il 60 e il 70 per cento delle persone saranno contagiate”, ma ugualmente non venivano adottate misure di contenimento e mitigazione. Ma oggi dichiara “Ora misure più severe”.

L’Italia invece decide attraverso decretazione d’urgenza di disporre misure sempre più restrittive per il contenimento e il contrasto del diffondersi del covid-19 sull’intero territorio nazionale, impedendo così di fatto l’esercizio delle attività produttive, ad eccezione dei servizi essenziali.

Da qui l’interrogativo su chi sta seguendo la strada giusta, se i nostri Governanti o gli altri, sorge spontaneo. 

Se si guarda all’aspetto puramente economico i dati non sono affatto confortanti, la chiusura prolungata di determinate attività rende di fatto, in mancanza di risposte chiare da parte di chi amministra, impossibile la riapertura quando l’emergenza si riterrà finalmente conclusa. Le risposte arrivano dal Governo confuse e frutto di grande approssimazione e poca competenza. Per cui si propende per ritenere, non in senso puramente esterofilo, che forse hanno ragione gli altri, quegli Stati che aspettano in modo silenzioso che tutto passi, sicuramente con vittime umane, ma non giuridiche.

Poi però ci viene in mente un discorso tenuto qualche anno fa, nel marzo del 2015, durante un Ted Talk dall’uomo più ricco del mondo e forse anche il più saggio o quantomeno visionario, in cui afferma che “La prossima guerra che ci distruggerà non sarà fatta di armi ma di batteri. Spendiamo una fortuna in deterrenza nucleare, e così poco nella prevenzione contro una pandemia, eppure un virus oggi sconosciuto potrebbe uccidere nei prossimi anni milioni di persone e causare una perdita finanziaria di 3.000 miliardi in tutto il mondo”. Inoltre, Bill Gates rifletteva sulla circostanza che “L’Ebola” (minaccia pandemica sfiorata nel 2014) ci ha offerto un vantaggio enorme, dal momento che il virus restava intrappolato nel corpo, e i malati erano presto ridotti al letto con scarsa possibilità di infettarne altri diceva Gates – Immaginate cosa succederebbe se una delle varianti della aviaria cinese cominciasse ad attraversare gli oceani insieme alle 30.000 persone che ogni giorno transitano dal Paese asiatico verso il resto del mondo”.

Pertanto, la minaccia di questa pandemia, oggi attuale, ha lasciato indifferente i Governi di tutto il mondo che non si sono attivati per rinforzare i sistemi sanitari e mettere in campo tutte le competenze anche tecnologiche per dare vita a una task force capace di difenderci quando il paventato pericolo si sarebbe presentato.

Ed eccoci ai giorni nostri, a fare i conti con un sistema sanitario ingolfato e incapace di reggere i numeri di questa epidemia e che costringe il Paese Italia e la sua economia ad inginocchiarsi davanti l’avanzare del contagio, perché non abbiamo sufficienti strumenti e posti letto per sorreggere i ricoveri di tanti pazienti critici tutti assieme e per di più in regime di isolamento. Gli stessi medici da più parti gridano alla necessità di seguire scrupolosamente le misure adottate perché l’attenzione all’epidemia di coronavirus non è dovuta alla sua letalità quanto alla capacità di far “saltare” il nostro sistema sanitario.

Pertanto, l’equazione è presto fatta, anche se il rischio di contrarre la malattia nella popolazione, soprattutto al di fuori dei focolai, rimane basso, la diffusione del virus va rallentata per evitare che questo rischio aumenti con il conseguente collasso degli ospedali. Più persone si ammalano, anche se asintomatiche o in modo lieve, più individui necessiteranno di ricovero.

Da queste premesse, appare del tutto inutile anche provare a fare una analisi economica e/o più propriamente giuridica perché sarebbe un ossimoro.

E già, perché il dato di fatto di partenza è la perdita di 11 miliardi (!!!) di capitalizzazione al FTSE di Milano. Uno shock per qualcuno insostenibile (come per alcuni operatori nella filiera del petrolio costretti a chiudere dopo il tonfo al NYMEX registrato in queste settimane) che potrebbe portare, secondo gli analisti, ad un tonfo pari alla metà di quello avuto nel biennio 2007/08.

Certo, la FED taglia i tassi al minimo, la BCE provvede all’acquisto di titoli di stato dei Paesi in difficoltà. Basterà? Basterà a fronteggiare la marea? Basterà, senza una iniezione di liquidità nel sistema?

In una delle sue ultime interviste, Montanelli parlando dell’Italia, alla sua maniera, cinicamente ironica, colta, lucida e con una vena di pessimismo, si espresse lanciando una provocazione, secondo cui per l’Italia futuro non vi fosse, ma per gli italiani sì. Radioso. Perché gli italiani in un modo o nell’altro sanno cavarsela.

È ignoto a chi scrive quali saranno le prossime sfide cui il mondo ci sottoporrà, si rischia di fare supposizioni più o meno competenti a seconda degli ambiti. Ed è altresì ignoto quali possano essere in futuro quei fattori esogeni provenienti dalla sovrastruttura sociale, politica, culturale, che andranno ad influenzare la struttura economica (come in una sorta di rovesciamento delle categorie marxiste).

Ciò che è certo è che ogni momento di difficoltà, dalle domeniche a piedi degli anni 70, al più o meno condivisibile “io resto a casa” odierno, ci ha insegnato a guardare avanti.

Oggi ci troviamo sospesi tra la denuncia, il grido, di uno stato di emergenza eccezionale e il negazionismo trumpiano. Sospesi. Perché l’equilibrio alla società dei social è sconosciuto. Perché la società dei social non riesce proprio a guardarsi allo specchio e ad accettare la mediocrità dell’epoca insignificante che viviamo.

Eppure, come già rimarcato, anche stavolta, anche questa emergenza ci obbliga a guardare lontano ed imparare dagli errori di oltre mezzo secolo, non fosse altro per tentare di ridare dignità alla luce della cultura offuscata dal qualunquismo dei social.

Non sappiamo quanto sia vero che stare chiusi in casa faccia bene, pur comprendendo l’utilità. Non sappiamo nemmeno quanto sia vero che stare chiusi, o rinchiusi, come ci stanno obbligando, possa riavvicinarci a valori ormai in disuso (come fu per quelle domeniche a piedi), perché, d’altra parte, per chi come noi italiani certi valori sono immanenti, sono quotidiani, lo stare chiusi porta solo tanta tristezza. Lo stare chiusi rischia di sbatterti in faccia ciò che forse non avresti mai voluto guardare fino in fondo.

Ma ci piace pensare, seguendo lo slogan del momento, che andrà tutto bene!

phd avv. Micaela Chechile

avv. Giulio Elefante

Sinopenauti

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LA TEMUTA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE

“Blocca-prescrizione” o “Blocca-processi” il nomen iuris di questa dirompente riforma, alla quale è stato affidato l’audace compito di trasformare i connotati del processo penale.

La modifica è entrata in vigore il 1 Gennaio 2020 (ex Legge n. 3/2019), da quel momento, ai sensi nuovo art. 159, co. 2 c.p.:” Il  corso  della  prescrizione  rimane  altresì   sospeso  dalla pronunzia della sentenza di primo grado o  dal  decreto  di  condanna fino alla data  di  esecutività  della  sentenza  che  definisce  il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”, ciò significa che la prescrizione rimarrà bloccata dopo il primo grado di giudizio.

NOZIONI

Prima di procedere all’esame di questo esplosivo emendamento – a tutt’oggi molto contestato e dibattuto all’interno della nuova maggioranza di Governo – , è opportuno delineare due nozioni elementari di questo importante istituto.

La prescrizione del reato è una causa estintiva determinata dal decorso del tempo senza che la commissione del reato sia seguita da una sentenza di condanna irrevocabile. In tal caso l’Autorità Giudiziaria dichiarerà “di non doversi procedere nei confronti dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato”. Si noti bene, non si tratta di una formula di assoluzione (in quanto l’imputato può sempre rinunciare alla prescrizione……) bensì di una causa di estinzione del reato.

L’ispirazione dell’istituto, va rinvenuta nel fatto che sarebbe inutile, oltre che inopportuno, esercitare la funzione repressiva dopo che sia decorso un certo arco temporale dalla commissione dell’illecito, in forza del venir meno delle esigenze di prevenzione generale.

La prescrizione decorre dalla data di commissione del reato.

Per individuare i termini della prescrizione, che si applicano ai diversi tipi di reato, in generale occorre fare riferimento alla durata della pena edittale massima prevista per essi dalla legge.

Naturalmente vi sono delle eccezioni per i reati di particolare gravità oppure per i reati ai quali la prescrizione non si applica, ad esempio i delitti puniti con la pena dell’ergastolo.

CUI PRODEST ???

Purtroppo questa riforma, se presuppone da un lato una maggiore tutela dei diritti dei soggetti danneggiati dal reato, richiederà dall’altro una notevole pazienza all’imputato in attesa della definizione del giudizio di II grado o dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Ciò che appare evidente è l’impossibilità di riformare il sistema giustizia con singole modifiche anziché operare una riforma strutturale.

L’anima giustizialista si contrappone all’anima garantista.

Il vulnus della presente riforma, difatti, non è la modifica dell’istituto della prescrizione, bensì la ragionevole durata del processo.

Il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, pregiudicherà il diritto ad un equo processo in tempi ragionevoli sia per gli imputati che per le parti offese, con una serie di processi infiniti.

L’ULTIMA RIFORMA DELLA PRESCRIZIONE E’ DEL 2017 : LA RIFORMA ORLANDO

Molti non sono a conoscenza che la presente riforma della prescrizione sostituisce la Legge n. 103 del 2017 (Riforma Orlando), la quale ha introdotto nell’art. 159 c.p. due eventuali e successivi periodi di sospensione del corso della prescrizione, dopo la condanna in primo e/o in secondo grado, ciascuno per un tempo non superiore a un anno e sei mesi. In pratica, la riforma del 2017 ha concesso tre anni in più per arrivare a una sentenza definitiva; ha quindi consentito una maggiore durata del processo allontanando l’odiata prescrizione del reato.

Ergo, era davvero necessaria questa ultima riforma ???

LA MACCHINA GIUSTIZIA

Per ottenere una sentenza definitiva in ambito penale ci vogliono 3 anni e 9 mesi, tra i peggiori dati della Unione Europea (fonte: Rapporto del Consiglio d’Europa Anno 2016). Carenza sia dei magistrati sia del personale di cancelleria incide notevolmente sulla durata dei procedimenti. Numero di processi ed eccessiva durata è questo il problema, che ricade peraltro anche su altri settori, come ad esempio quello economico, in quanto impedisce di fatto che i grandi operatori investano nel nostro Paese.

Per ovviare a tale piaga occorrerebbe modificare le regole processuali, informatizzare il processo penale, semplificare le notifiche, eseguire interventi mirati di depenalizzazione, aumentare (naturalmente) l’organico.

La riforma così come concepita produrrà notevoli squilibri, con un forte impatto sui giudizi di impugnazione, e con una reiterata violazione delle garanzie costituzionali ed internazionali : art. 111 Cost. – ragionevole durata del processo ; art.6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

E L’INNOCENTE ?????

A questo punto l’imputato dovrà affidarsi ai tempi della Dea della Giustizia, alla sua potente spada, sperando che la sentenza di assoluzione non venga emessa dopo alcune decadi, quando ormai la senilità avrà preso il soppravvento.

P.S. In Italia, secondo i dati del ministero della Giustizia, il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini.

                                                                                               Avv. Antonio Marchesano

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PISA OCSE 2018 – GIOVANI IGNORANTI FUNZIONALI?

Puerto Rico ha partecipato alla rilevazione PISA 2015 (come territorio non incorporato degli Stati Uniti).
** B-S-J-Z (Cina) si riferisce a quattro province/comuni cinesi partecipanti a PISA 2018: Pechino, Shanghai, Jiangsu e Zhejiang. In PISA 2015, le quattro province/comuni partecipanti sono stati: Pechino, Shanghai, Jiangsu e Guangdong.
Nota della Turchia: Le informazioni contenute nel presente documento con riferimento a “Cipro” si riferiscono alla parte meridionale dell’isola. Non esiste un’unica autorità che rappresenta sia i turco-ciprioti che i greco-ciprioti dell’isola. La Turchia riconosce la Repubblica Turca di Cipro del Nord (TRNC). Fino a quando non si troverà una soluzione equa e duratura nell’ambito delle Nazioni Unite, la Turchia mantiene la sua posizione sulla “questione cipriota”.
Nota di tutti gli Stati membri dell’Unione europea dell’OCSE e dell’Unione europea: La Repubblica di Cipro è riconosciuta da tutti i membri delle Nazioni Unite, ad eccezione della Turchia. Le informazioni contenute nel presente documento si riferiscono alla zona sotto il controllo effettivo del governo della Repubblica di Cipro.

I DATI

Secondo il PISA i quindicenni italiani non sanno leggere o, più correttamente, la maggioranza di loro non capisce quello che legge, o meglio non distingue un fatto da un’opinione.

  • Nel 2018, l’Italia ha ottenuto un punteggio inferiore alla media OCSE in lettura (476 contro 487 di media) e scienze (468 contro 489 di media) e in linea con la media OCSE in matematica (487 contro 489 di media). La prestazione media dell’Italia è diminuita, dopo il 2012, in lettura e in scienze, mentre si è mantenuta stabile in matematica.
  • Il punteggio in lettura del 2018 non si discosta in modo significativo da quello dell’ultima rilevazione, i dati peggiorano in modo evidente rispetto alle rilevazioni degli anni passati, fino ad arrivare a -26 punti rispetto al 2000.
  • Nel 2018, il 10% degli studenti in Italia aveva un background migratorio, rispetto al 6% del 2009; e quasi la metà di essi erano compresi nel quartile degli studenti più svantaggiati dal punto di vista socio- economico in Italia. Tuttavia e prima di saltare al collo dell’immigrato che ci abbassa la media, aggiungo subito che il 14% degli studenti immigrati si posiziona nel quartile superiore della prestazione in lettura in Italia, collocandosi tra gli studenti con rendimento più alto nel nostro paese.
  • Solo il 5% (media OCSE: 9%) degli studenti in Italia si colloca ai livelli più elevati (Livello 5 o 6) nel test di lettura PISA. Significa che solo il 5% dei nostri quindicenni comprendono testi lunghi, trattano concetti astratti o contro intuitivi e distinguono i fatti dalle opinioni; il 77% degli studenti invece raggiunge almeno il livello 2 di competenza in lettura (media OCSE: 77%), significa che   questi studenti riescono a identificare l’idea principale in un testo di lunghezza moderata, trovare informazioni basate su criteri espliciti, anche se a volte complessi, e possono riflettere sullo scopo e sulla forma dei testi se esplicitamente guidati.
Istantanea delle prestazioni in lettura, matematica e scienze

DATI di Genere – fonte PROGRAMME FOR INTERNATIONAL STUDENT ASSESSMENT (PISA) – RISULTATI 2018

Le aspettative di carriera degli studenti quindicenni con risultati più elevati rispecchiano forti steretipi di genere. Tra gli studenti con alto rendimento in matematica o scienze, circa un ragazzo su quattro in Italia prevede di studiare come ingegnere o professionista scientifico all’età di 30 anni, mentre solo una ragazza su otto si aspetta di farlo; circa una ragazza su quattro si aspetta di lavorare in professioni sanitarie, mentre solo un ragazzo su nove con alto rendimento lo prevede. Solo il 7% dei ragazzi e quasi nessuna ragazza in Italia prevede di lavorare nelle professioni legate alle TIC.

Secondo i dati PISA 2018 in Italia, il divario di genere nella lettura (25 punti) è stato inferiore al divario medio poichè la performance dei ragazzi è rimasta stabile mentre quella delle ragazze è diminuita nel periodo 2009-2018.
In Italia,inoltre, i ragazzi ottengono risultati migliori delle ragazze in matematica di 16 punti, tale divario è più ampio rispetto a quello riscontrato in media nei paesi OCSE (5 punti). Mentre in media nei paesi OCSE in PISA 2018, le ragazze hanno ottenuto risultati leggermente superiori a quelli dei ragazzi in scienze (due punti in più), in Italia ragazze e ragazzi hanno ottenuto risultati simili in scienze. (fonte PISA 2018)

I dati di genere dimostrano come i ragazzi sono più portati verso le materie STEM seppure le ragazze abbiano rendimenti anche superiori. Da qui la necessità di inserire tra le materie di studio, fin da piccolissimi, le materie scientifiche e i laboratori.

Il Clima Scolastico

Nota: Sono riportati solo i paesi e le economie con dati disponibili. (1) In tutte o nella maggior parte delle lezioni nella lingua di istruzione; (2) Vero o molto vero; (3) D’accordo o molto d’accordo.
Fonte: OCSE, Database PISA 2018, Tabelle III.B1.2.2.1, III.B1.3.1, III.B1.4.1, III.B1.8.1, III.B1.8.2 e III.B1.9.1.

I presidi, che si tratti di scuole socio-economicamente “avvantaggiate” o “svantaggiate”, lamentano carenza di docenti e materiali rispetto alle stesse nelle altre aree OCSE.

In Italia le strutture scolastiche risultano essere fatiscenti e gli edifici non rispondono alle necessità tipiche della scuola moderna (a partire dalla strumentazione tecnologica passando per le più importanti barriere architettoniche).

I dati dicono che i rendimenti più alti si ottengono dove gli insegnanti si mostrano entusiasti e divertiti dal proprio lavoro. Secondo il 74% degli studenti italiani i propri insegnanti sono entusiasti e divertiti. Sembra una percentuale molto malta, ma siamo solo al 58esimo posto su 79. Altrove si tocca punte del 90%.

Tra le dichiarazioni dei ragazzi emerge un dato abbastanza singolare. Il 30% infatti riferisce che gli insegnanti di italiano devono attendere molto tempo prima che gli studenti si calmino in classe e possano cominciare a fare lezione.  Gli studenti che hanno dichiarato questo, hanno ottenuto 21 punti in meno rispetto a quelli che hanno dichiarato che non succede mai o raramente.  Questo significa che l’attenzione dei ragazzi è scarsa probabilmente a causa degli stimoli continui che arrivano dal web o anche dal fatto che in questi ultimi anni la figura dell’insegnante è stata sminuita e ridimensionata nel proprio ruolo sia dal punto di vista didattico che dal punto di vista educativo.

I dati della rilevazione hanno visto un sostanziale calo del rendimento dal 2000 (anno della prima rilevazione) a oggi. Nel frattempo ci sono state una serie di riforme scolastiche che hanno tagliato fondi e ore alla didattica inserendo progetti in orario curriculare che spesso impediscono di sviluppare e completare al meglio i programmi, anche nei Licei.

Ciò nonostante gli studenti dei Licei sono comunque quelli meglio piazzati nella rilevazione e in linea con la media OCSE.

Uno dei dati più rilevanti che emerge dal rapporto PISA è la conferma del divario tra Nord e Sud del Paese. Infatti analizzando i risultati si ottiene una differenza non solo tra Nord e Sud, ma tra centro e periferia, e tra tipi di scuole. Il nostro è quindi un problema prevalentemente socio-economico, di equità al diritto di istruzione che è decisamente culturale e strutturale e per il quale manca totalmente una programmazione politica adatta a risolverlo.

Arianna Fresa

dott.ssa in Conservazione dei Beni Culturali e Archeologici

Sinopenauta


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PLASTIC TAX – GREEN ECONOMY O INSOSTENIBILITÀ PER LE PMI?

Partendo dallo oramai famoso “Great Pacific Garbage Patch ” ovvero l’enorme accumulo di plastica le cui dimensioni sono state stimate tra i 700 mila e i 10 milioni di chilometri quadrati (per intenderci l’equivalente della penisola Iberica o degli Usa a seconda della estensione che prendiamo in considerazione) che si è formato nell’Oceano Pacifico e scoperto alla fine degli anni ’80, l’opinione pubblica di tutto il pianeta ha accesso la luce su un problema che non possiamo semplicisticamente definire un vezzo ambientalista.

Esistono soluzioni per cercare di ripulire gli oceani dalla plastica?

Molti governi hanno cominciato ad adottare misure volte a limitarne l’uso, dichiarando guerra alle plastiche usa e getta, alle monoporzioni o agli involucri; altri hanno investito risorse per la ricerca di soluzioni per una vera e propria pulizia degli stessi.

Tra gli Stati più attivi nella guerra alla plastica c’è proprio l’Italia che dapprima, con un emendamento della finanziaria 2017, ha bandito i sacchetti di plastica non biodegradabili, per poi dal 1° Gennaio 2019 proibire la vendita dei cotton fioc non biodegradabili e dal 1° Gennaio 2020 vieterà la vendita di prodotti cosmetici “da risciacquo ad azione esfoliante o detergente” contenenti microplastiche.

Nell’onda ambientalista di questo Governo – così come del precedente – si vuole introdurre con la Manovra di bilancio – ora all’esame della Commissione Bilancio del Senato – la Plastic Tax ovvero una ulteriore tassa per il comparto dei produttori della plastica vestita però da “misura di salvaguardia ambientale”.

Si tratta dell’art. 79 del ddl “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022”, presentato dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, rubricato “Imposta sul consumo dei manufatti in plastica con il singolo impiego e incentivi per le aziende produttrici manufatti in plastica biodegradabile e compostabile” con cui E’ istituita una imposta (pari ad 1 euro per ogni chilogrammo di plastica dei manufatti monouso – oggetto di possibili correttivi al ribasso e/o rinvii) sul consumo dei manufatti con singolo impiego, d’ora in avanti indicati come MACSI, che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari […].

Questa tassa come suggerirebbe il nome del Titolo II del ddl “Misure fiscali a tutela di ambiente e salute” sarebbe pensata per tutelare l’ambiente.

La domanda da porsi è: l’introduzione della plastic tax  ha un effetto positivo per l’ambiente?

Certo, la risposta più banale sarebbe quella di disincentivare, con la sua introduzione, l’uso diffuso della plastica.

La nuova tassa, che si aggiunge al prelievo ambientale – già molto oneroso – che le imprese del settore del packaging pagano per il fine vita degli imballaggi plastici (contributo CONAI per la raccolta e il riciclo), danneggia pesantemente un intero settore produttivo e costituisce una doppia imposizione e, dunque, ingiustificata sia sotto il profilo ambientale che economico-sociale.

Ricordiamo che l’Italia è il secondo maggior produttore dei prodotti packaging in Europa, con 12 miliardi di euro di fatturato l’anno e 3 mila aziende che operano nel settore; pertanto, l’approvazione della plastic tax così come formulata nella manovra di bilancio avrebbe quale unico risultato quello di mettere a repentaglio duemila piccole e medie aziende del settore, che garantiscono il lavoro a oltre 50.000 addetti. Infatti, se pensiamo al solo comparto presente sulla via Emilia, da anni ribattezzata la Packaging valley, che ospita il maggior numero di aziende del comparto in Italia, precisamente 230 con oltre 17.000 occupati e un fatturato annuo di 5 miliardi di euro, pari al 63 per cento del giro di affari nazionale, appare ictu oculi evidente, che le stesse verrebbero fortemente colpite da una imposizione iniqua che affosserebbe o comunque metterebbe in seria difficoltà l’intera economia legata al packaging.

Tornando alla domanda iniziale, per provare a fornire una risposta, risulta davvero complesso se non impossibile trovare un nesso causale tra la scelta legislativa di imporre una tassa “green” e l’obiettivo stesso palesato da questo Governo di ottenere la riduzione dell’uso della plastica.La plastica non è solo un problema di economia e di governance politica, ma anche e soprattutto di comportamenti.

E allora dov’è la verità? Perché questa demonizzazione della plastica?

Probabilmente il fine è quello di indorare la pillola per l’opinione pubblica, facendo accettare come dovuta una tassazione aggiuntiva, che di fatto, penalizzerà per lo più i consumatori, in quanto i maggiori oneri saranno riversati sul prezzo finale dei prodotti.

Ma i conti devono tornare. E nuovamente sono i cittadini, le imprese a supporto dello Stato e non viceversa.

Il disegno di bilancio 2020 – figlio di un compromesso tra forze politiche assolutamente disomogenee e prive di una visione comune del futuro del Paese – vorrebbe introdurre una serie di micro tasse, dalla plastic tax alla sugar tax, che ricadranno inevitabilmente sui bilanci familiari.

Se la ratio della misura è incentivare per via fiscale un cambiamento nella produzione di materiali plastici e nelle abitudini di consumo, il legislatore ha però dimenticato di indicare nel testo quali siano le azioni volte a disincentivare l’uso della plastica.

Pertanto, la misura così presentata risulta inappropriata perché da un lato non si percepisce la finalità ambientale (se non nella sloganizzazione del plastic free) dall’altro si penalizza un settore che sta già facendo grandi sforzi nella direzione della sostenibilità, rischiando al contempo di affossare la competitività di un compartimento produttivo strategico e di eccellenza tutta italiana che deve invece essere incentivato a intraprendere una transizione verso un’economia circolare veramente green.

Sarebbe infatti più utile mettere in campo un sistema organico di incentivi che accompagnino le aziende produttrici verso una riconversione industriale in chiave “green” e/o “circolare” della produzione, prevedendo ad esempio criteri agevolativi sul costo del lavoro direttamente collegato alle innovazioni apportate (produzione di materiale eco o gestione e riuso della materia prima seconda), in analogia a quanto già disciplinato per le start-up e Pmi innovative.

Viene da sé che tale azione coinvolgerebbe anche l’indotto di filiera impattando direttamente in maniera positiva sul Pil del Paese ottenendo un reale Green New Deal.

Allora non mistifichiamo la realtà non facciamo passare un’imposizione decisa per fare cassa, per finanziare nel 2020 provvedimenti inconcludenti (v. quota 100), come una tassa etica che invece, di fatto, mette a repentaglio posti di lavoro e cagiona un grave danno alle imprese del settore.

Il problema della plastica esiste, ma va risolto altrove, da un lato in un’attività di formazione e informazione per aumentare la consapevolezza dei consumatori su un uso (e riuso) corretto della plastica (che va intesa sempre più quale risorsa e non quale rifiuto), dall’altro intraprendere, come detto, una politica seria più coerente con gli obiettivi di tutela dell’ambiente.

Giova ricordare che l’Italia ha una buona performance in termini di sostenibilità ambientale, che la colloca in cima alla classifica dei Paesi europei più virtuosi. In rapporto al PIL, le emissioni di gas serra risultano infatti del 21% più basse della media UE, il consumo di materia prima del 36% e quello di energia addirittura del 57%.

Inoltre, con particolare riferimento alle bottiglie per liquidi alimentari, oggetto di imposizione, si ricorda che la gran parte della plastica utilizzata è il Pet ovvero polietilene tereftalato una plastica riciclabile al 100% e riutilizzabile fino al 50% nella fabbricazione di nuove bottiglie. Con le bottiglie di PET già si realizza il principio dell’economia circolare, tant’è che anche la direttiva europea sulla plastica (n. 904/2019) riconosce la riciclabilità al 100% del PET fissando ambiziosi obiettivi di raccolta e riutilizzo del riciclato.

Ma chi colpisce la plastic tax, i grandi produttori di polimeri?

No, come sempre il tessuto imprenditoriale, costituito per lo più da piccole e medie imprese che non hanno – gioco forza – altro mezzo di difesa che scaricare l’incompetenza delle istituzioni sui consumatori finali, i quali vedranno aumentare il costo della bottiglia di plastica e dei prodotti dolciari.

E allora come bisogna affrontare realmente il problema della plastica negli oceani?

La risposta più realistica è rispolverare le 4 r: Ridurre, Recuperare, Riusare, Riciclare.

Altro problema è il trattamento dei rifiuti di plastica in Italia e in Europa ed è su questo che le politiche nazionali e sovranazionali dovrebbero convogliare risorse e soluzioni. In Europa la termovalorizzazione è il modo più usato per smaltire i rifiuti di plastica, seguito dallo smaltimento in discarica. Il 95% del valore del materiale plastico da imballaggio è sostanzialmente perso dopo un ciclo di primo utilizzo molto breve. L’Italia, dunque, ha un grave deficit impiantistico in materia di rifiuti dovuto anche a un’avversione ideologica verso gli impianti di smaltimento di qualsiasi tipo (qui occorrerebbe una riflessione a parte). Questo impedisce di trasformare ciò che oggi è visto come un problema, in una risorsa, come avviene in molti Paesi.

Quali sono quindi i problemi che ostacolano il maggiore utilizzo nelle industrie di trasformazione della plastica di materiale riciclato?

Il maggiore riguarda la qualità e il prezzo dei prodotti riciclati rispetto a quelli dei prodotti realizzati con materiale vergine. Le aziende che trasformano la plastica hanno bisogno di una grande quantità di plastica riciclata, la produzione deve rispondere a specifiche di controllo molto severe e il prezzo deve restare competitivo.

Dal momento che le plastiche sono facilmente adattabili ai singoli bisogni (funzionali o estetici) di ogni produttore, la diversità dei materiali di plastica grezzi complica ulteriormente i processi di riciclo, il che incide sul costo e sulla qualità del prodotto finale. Di conseguenza, la domanda della plastica riciclata ammonta al solo il 6% di quella complessiva per la plastica in Europa.

Se, dunque, appaiono in linea con questi risultati le misure contenute nella manovra di bilancio volte a favorire una riconversione coerente con il paradigma dell’economia sostenibile (a partire dal Green New Deal), questo impulso è vanificato da una misura punitiva come, appunto, una tassa che colpisce i produttori e non chi inquina.

Tale dibattito come quello sulla plastic free ha portato all’individuazione di nuovi materiali di origine vegetale, riciclabile e composti da risorse rinnovabili per la realizzazione di beni che prima utilizzavano polimeri chimici. Si pensi al biopolimero ricavato dalla canna da zucchero, i cui maggiori produttori si trovano in Brasile, oppure ai biopolimeri da amido o quelli a base di PLA (Acido Polilattico) o da fermentazione batterica o quelli sintetici da risorse rinnovabili, con i quali si possono produrre carburanti e si possono avere applicazioni nel settore del packaging, nei prodotti usa-e-getta quali i piatti, i bicchieri, e le posate, o in settori come quelli della cosmesi e del tessile, attraverso appunto l’utilizzo di polietilene green.

Se è vero che questi materiali sono definibili green, occorre comunque interrogarsi anche sul profilo etico dell’utilizzo di prodotti agricoli come alternativa sostenibile ai combustibili fossili per produrre materiali di uso comune. Il Brasile ad esempio utilizza 9,2 milioni di ettari per la coltivazione della canna da zucchero dei suoi 330 milioni di ettari di terra arabile, id est per fare il polietilene “I’m green”.

Non si capisce come si possa sottovalutare l’effetto di determinate azioni: l’impatto ambientale che produrrebbe una crociata tutta mediatica. Non si capisce come si possano ignorare esigenze di sostenibilità economica e ambientale in favore delle solite manfrine dialettiche dettate da equilibri di geografia parlamentare.

Ma quanto è sostenibile e quanto è etico imporre la conversione di terreni agricoli per il mero fine produrre bioplastiche? Quanto è sostenibile e quanto è etico penalizzare chi nella realtà dei fatti è già parte (come detto) di quel meccanismo virtuoso di economia circolare?

Eppure basterebbe trarre ispirazione da chi prima di noi ha teorizzato rapporti proficui tra etica ed economia, tra etica e giustizia (Sen, Rawls) per addivenire a progetti che creino posti di lavoro grazie alla conversione sostenibile delle attività produttive, non iniziative volte a monetizzare pochi milioni di euro sulle spalle di uno dei pochi settori che ancora regge l’urto della globalizzazione nel nostro Paese.

Ma le bioplastiche, poi, sono in grado di rispondere alle esigenze del mercato?

Vi sono alcuni aspetti quali il prezzo (costi più elevati rispetto a quelli dei polimeri tradizionali), la performance (vi sono limitazioni riguardanti alcune caratteristiche meccaniche, termiche) il processing (difficoltà con le attrezzature attualmente in commercio) che rappresentano alcune tra le criticità che rendono meno attrattivo per le imprese che operano nel settore della trasformazione del materiale plastico l’utilizzo di biopolimeri in luogo di quelli chimici.

In questa direzione, l’Europa ha messo a punto una strategia comune per la plastica nell’economia circolare per ridurre lo spreco di plastica in prodotti monouso, tanto che già a settembre 2018, si è auspicato che tutti i rifiuti di imballaggi in plastica siano riciclabili entro il 2030. Ciò dovrebbe favorire la nascita di soluzioni studiate ad hoc per il riciclaggio, ma per ottenere questo effetto è necessario che vengano attuate misure che possano incentivare il mercato all’uso della plastica riciclata. Alcune di queste misure che ciascun Stato membro dovrà attuare per una politica sostenibile c’è la riduzione dell’IVA sui prodotti riciclati, la creazione di standard di qualità per la plastica secondaria (riutilizzata) e la predisposizione delle certificazioni che incoraggino la fiducia da parte dell’industria e dei consumatori, nonché introdurre regole obbligatorie sulle quantità minime di contenuto riciclato all’interno di certi prodotti.

Parallelamente, il Parlamento europeo ha messo a punto delle misure che mirano a ridurre le quantità di rifiuti di plastica attraverso il bando di alcuni prodotti di plastica usa e getta e la restrizione dell’utilizzo delle buste di plastica leggera, nonché azioni contro le microplastiche.

Volendo, dunque, tirare le fila del discorso, tornando su quell’enorme, spaventoso continente galleggiante di plastica da cui siamo partiti, appare davvero semplicistico quanto fuorviante pretendere di affermare che un provvedimento come la “plastic tax” possa davvero sortire un reale effetto positivo sull’ambiente.

L’inquinamento da plastica, quello vero, proviene da altrove! Paesi in via di sviluppo che peccano dei più elementari rudimenti di raccolta (figuriamoci di differenziazione) dei rifiuti oltre alla piaga rappresentata da continue, ingenti, perdite di container di navi cargo che tutt’oggi continuano (per qualche incomprensibile motivo) a solcare rotte proibitive per la navigazione.È evidente si tratti di questioni serie e complesse che, come accennato pocanzi, necessitano dell’impegno concreto e pregnante di istituzioni sovranazionali, non, di certo, dell’ennesima tassa che, come visto, si ripercuoterà esclusivamente su noi consumatori finali.

Micaela Chechile

Ph.D. Avvocato

Docente a contratto di Diritto Commerciale

DISA-MIS Università degli Studi di Salerno

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M.E.S. tra fake news e verità

23 marzo 2011.

La data di riferimento è quella. 494 voti a favore, 100 contrari e 9 astensioni.

Il Parlamento Europeo approva una modifica all’art. 136 del TFUE, istituendo una nuova organizzazione internazionale a carattere regionale, al fine di conferire maggiore stabilità finanziaria all’eurozona.

Il nome prescelto in quella sede fu: European Stability Mechanism (ESM), tradotto come Meccanismo Europeo di Stabilità, Fondo salva Stati, Fondo ammazza Stati, ecc …

Ora attenzione alle date.

Il Consiglio Europeo, riunito a Bruxelles il 9 dicembre del 2011 decide per una drastica anticipazione dell’entrata in vigore del fondo, da luglio 2013 (come inizialmente previsto) a luglio 2012.

Ricordate quegli anni?

Eravamo agli sgoccioli dell’epopea berlusconiana, lo spread che volava (eppure nessuno capiva bene cosa fosse), la crisi dei debiti sovrani, i prelievi forzosi dai conti correnti a Cipro, la coniazione di “simpatici” acronimi per definire (o forse ghettizzare) alcuni Paesi dell’Unione Europea.

I paesi, per così dire, meno virtuosi erano identificati con la sigla “G.I.P.S.I.” o “P.I.I.G.S.” (dalle iniziali dei nomi dei vari Paesi “in difficoltà”: Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna). A prescindere dai giudizi sul cattivo gusto utilizzato per gli acronimi, i Paesi così identificati, quelli della c.d. Eurozona Periferica, erano quelli accomunati da un alto rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, nonché da un alto rapporto tra deficit di bilancio e prodotto interno lordo.

Fu proprio tale situazione, accentuata da attacchi speculativi sempre più frequenti, instabilità politica e necessità di armonizzare le politiche finanziarie comunitarie a spingere il legislatore europeo ad adottare misure drastiche come, appunto, un fondo concepito sulla falsa riga del FMI (Fondo Monetario Internazionale) con una capitalizzazione elefantiaca (700 miliardi) per prevenire eventuali situazioni di insolvenza di Stati membri.

Come funziona, dunque, questo fondo?

Il fondo emette prestiti (concessi a tassi fissi o variabili molto agevolati e comunque molto più vantaggiosi rispetto a quelli rinvenibili sul libero mercato per Paesi in crisi) per assicurare assistenza finanziaria ai Membri dell’Unione in difficoltà e acquista titoli di Stato sul mercato primario e secondario.

In pratica, laddove uno Stato membro dovesse trovarsi in una situazione delicata dal punto di vista finanziario, anziché ricorrere al mercato per piazzare i propri titoli, dovendo ivi garantire rendimenti elevati, può attingere al MES.

Tutto bello, tutto conveniente, tutto armonico o almeno è ciò che sembra.

Allora dove nasce la polemica?

Negli ultimi giorni si assiste a un dibattito serrato (più o meno con cognizione di causa) di tutte le forze politiche riguardo la modifica degli accordi sul MES, affinché possa aprire linee di credito agli Stati membri che si trovano in difficoltà sui mercati e, contemporaneamente, diventare prestatore di ultima istanza per le crisi bancarie (come quelle a cavallo degli anni 2009 – 2012).

Nell’idea della varanda riforma, il MES dovrebbe sostanzialmente evolversi in una sorta di Fondo monetario europeo oltre che fungere, al contempo, da backstop comune (una rete di sicurezza) per il Fondo di risoluzione unico delle banche in crisi.

In sintesi, la riforma (che ricordiamo, deve essere ratificata dal Parlamento di ciascuno Stato membro) dispone che il MES dovrebbe dotarsi di due nuovi strumenti a disposizione dell’Eurozona: una “linea di credito precauzionale condizionata” e una “linea di credito a condizioni rafforzate”.

Dove nascono, dunque, le critiche, le remore, le riserve? Laddove non siano strumentali a fini di mera propaganda sterile da tifosi da bar (pro e contro), esse riguardano il meccanismo di accesso a tali linee di credito da parte degli Stati, nonché (una volta usufruite) le sempre maggiori ingerenze nella politica economica nazionale da parte di organismi endogeni.

A questo punto credo di aver toccato il nervo scoperto del dibattito cui assistiamo.

Perché infervorarsi su qualcosa che, ad oggi, ha dato solo benefici all’Italia (che di fatto ha ricevuto più di quanto versato) e la cui riforma, praticamente ad oggi, non tocca il nostro Paese?

Il nodo sta nel fatto che i Paesi che fanno richiesta di aiuto al MES devono accettare di rispettare una serie di indicazioni da parte degli Organismi europei necessarie a risanare la propria situazione economica. Tutto ciò, tra l’altro, sotto il controllo del comitato (la temuta, tanto vituperata, Troika) formato dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale che vigila sull’effettiva realizzazione delle riforme e dei cambiamenti nazionali richiesti dall’Europa.

Ed ecco che, solerti quanto puntuali, insorgono i sovranisti (o presunti tali), al grido di “Lesa Maestà!”, o meglio “Lesa Sovranità!”, pur di racimolare qualche voto, recriminano per una presunta invasione nella politica interna dei paesi in difficoltà da parte della tirannica Europa.

Come al solito, molto banalmente, la verità, a parere di chi scrive, è nel mezzo. Se da un lato l’Eurozona periferica chiede modalità di accesso al credito più semplici che, dunque, non comportino particolari “invasioni” sulle scelte di politica economico sociale interne, dall’altro, i Paesi “virtuosi” chiedono maggiori garanzie e chiarezza circa i motivi e le modalità di elargizione dei prestiti ai Paesi in difficoltà, oltre che sulle modalità ed i tempi di rientro.

E l’Italia?

L’Italia è nel mezzo. L’Italia è sospesa, citando Baudelaire “tra voglia di assoluto e insensato gusto per il nulla”. L’Italia è il terzo contributore del Meccanismo, avendone sottoscritto una quota del 17,9% e ne è stata una grande beneficiaria. Ora, come accennato sopra, si vuole polemizzare (senza averne le competenze) su una riforma necessaria in nome della solita demagogia populista che impedisce alla politica italiana di guardare oltre il termine delle singole legislature.

Appare evidente quanto scontato che, ad un Paese che versa in difficoltà economiche, con debito caratterizzato da un giudizio di rating medio basso (Baa o BBB) e con uno scenario politico altamente instabile ed umorale, un organismo sovranazionale chieda particolari garanzie prima di concedere linee di credito o prestiti a cuor leggero.

In conclusione, la domanda che si pone agli esponenti del c.d. governo “giallo-verde”, che oggi si rendono portavoce di una rivisitazione del trattato in chiave sovranista, è proprio quella. Vale a dire, voi prestereste del denaro a qualcuno per coprire sprechi assurdi, frutto malato di riforme deprecabili (quota 100, reddito di cittadinanza), senza alcuna garanzia sulle scelte che porteranno alle modalità di restituzione? O meglio, molto più semplicemente, non sarebbe preferibile trovare soluzioni di investimento più sostenibili per i fondi che si hanno a disposizione ed evitare di dover ricorrere a strumenti straordinari quali il MES?

Rispondendo a queste domande, probabilmente, ci si renderebbe conto che ciò che ammazza gli Stati sono gli sprechi inutili, non i meccanismi di salvataggio.

Giulio Elefante

avvocato, dottorando presso il Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation Systems di Unisa

Post in evidenza

Sinopenauti

“Le fondamenta di ogni stato sono l’istruzione dei suoi giovani.” 

— Diogene di Sinope.

Il Think tank prende il nome da Diogene di Sinope, il primo uomo “cosmopolita” della storia, infatti si racconta che alla domanda “Da dove vieni?”, lui rispondesse “Sono cittadino del mondo intero”.

Noi siamo Sinopenauti, cittadini del mondo intero.

Polarizzazione della ricchezza e shock sistemici.

L’allocazione delle risorse al tempo della pandemia

Parasite è un film del 2019, magistralmente diretto dal sudcoreano Bong Joon-ho, premiato, meritatamente, agli Oscar come miglior film.

Film crudo, vero, ironico, drammatico ma incredibilmente profondo oltre che vicino alla nostra “comfort zone” occidentale più di quanto possa far credere l’ambientazione nel lontano oriente.

Il messaggio di fondo sotteso all’intera narrazione è quello che mette a nudo le disparità in una terra come la Corea del Sud, così occidentale, così capitalista. Così tanto capitalista.

Il tutto ed il niente a confronto.

Perché il tutto è tutto, chi ha tutto ha tutto: “Così poco preavviso e sono tutti così perfetti…per loro è normale esserlo”. Il niente è niente, e chi ha niente ha niente: “Non aver mai alcun tipo di piano, neanche l’ombra. Sai perché? Se elabori un piano, la vita non va mai nel verso che vuoi tu”.

La vita non va mai nel verso che vuoi tu.

Messaggio a metà tra un realismo disilluso ed un nichilismo pasoliniano proprio di determinati momenti della cultura novecentesca; quasi una “rinuncia alla vita” che rimanda ad altre opere fondamentali del novecento occidentale come appunto il Decameron di Pier Paolo Pasolini, o la “Pastorale Americana” del compianto Philip Roth.

Appunto, rinuncia alla vita.

Quel maledetto 9 marzo 2020, giorno di imposizione del tanto inutile quanto deleterio “hard lockdown”, voluto dal governo Conte II per mascherare la propria totale inadeguatezza, su tutti i media riecheggiava il mantra:” Necessario rinunciare alla vita sociale per qualche settimana”.

Le poche settimane sono diventate un anno (ça va sans dire) e intanto Forbes ha pubblicato la trentacinquesima lista annuale delle persone più ricche del mondo in cui figurano 2.755 miliardari! Cifra record, 660 in più rispetto a un anno fa. Nel complesso, la somma dei loro patrimoni è di circa 13.100 miliardi di dollari: 8 mila miliardi circa in più del totale della classifica 2020.

La cosa interessante è che anche la Banca Mondiale ha pubblicato, contemporaneamente alla solita classifica di Forbes, uno studio abbastanza attuale e puntuale secondo cui per la prima volta in oltre 20 anni, il numero delle persone sotto la soglia di povertà – vale quelle che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno – è destinato ad aumentare quest’anno e il prossimo, con l’estrema povertà che colpirà fra il 9,1% a il 9,4% della popolazione globale nel 2021, in peggioramento rispetto agli ultimi anni.

I così detti nuovi poveri (mica pensavate ci fossero solo i “nuovi miliardari” alla Kim Kardashian?!), otto su dieci, saranno concentrati nei paesi a medio reddito.

Ecco dunque, fatta questa debita premessa, si arriva al nodo cruciale della questione: è efficiente, equo, giusto, sostenibile (inteso come autopoietico) un sistema che permette una distribuzione così polarizzata della ricchezza?

A pensarci, Amartya Kumar Sen ha vinto un premio Nobel rispondendo un secco no a questa domanda e dimostrando (o cercando di dimostrare) i limiti del modello paretiano di allocazione ottima delle risorse.

Ora, senza fantasticare e perdersi nei meandri della macroeconomia (sport anche abbastanza appassionante a dire il vero) occorre fare un passo indietro di un paio d’anni.

Estate 2019. Elezioni europee, Salvini al Papeete, il ribaltone gialloverde e giallorosso, De Ligt alla Juve. Fondamentalmente i temi erano questi.

Ciò che ai più sfuggì era anche la circostanza allarmante che vi fossero palesi segnali di recessione provenienti (guarda caso) dagli Stati Uniti, legati anche al rischio di una guerra commerciale con la Cina. Per la prima volta da oltre un decennio, si invertì la curva dei rendimenti dei titoli di Stato Usa tra la scadenza a 2 anni e quella a 10. Con buona pace degli economisti, brutalizzando il discorso per renderlo comprensibile a chiunque, in generale i rendimenti dei titoli di Stato a breve termine tendono a riflettere le attese sulla politica dei tassi di interesse delle banche centrali di riferimento (Federal Reserve nel caso degli USA), mentre quelli sui titoli più a lungo termine riflettono in gran parte le aspettative di crescita e di inflazione.

Ebbene, quella situazione non si verificava da maggio 2007 (data che agli economisti qualcosa ricorda) e soprattutto, negli ultimi 40 anni, è sempre stata anticipatrice di una recessione dell’economia americana.

Risultato?

Uno studio del 2010 intitolato “Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising” (Restiamo divisi: perché la disuguaglianza continua a crescere) della Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) concluse che la disuguaglianza dei redditi nei paesi dell’OCSE aveva raggiunto il livello più alto dell’ultimo mezzo secolo, basti pensare che persino nazioni tradizionalmente più egualitarie, come la Germania, la Danimarca o la Svezia, avevano visto il divario tra ricchi e poveri espandersi da 5 a 1 degli anni ’80, a 6 a 1 del 2010. Il tutto nonostante la massiccia iniezione di liquidità voluta dalla FED nel 2008.

I più poveri, dunque, si sono impoveriti e i più ricchi si sono arricchiti. A margine di detto studio l’Ocse lanciò un allarme: se negli anni precedenti le fasce più a rischio della popolazione erano gli anziani, adesso la povertà minaccia maggiormente i più giovani. Infatti i dati dei 33 Paesi analizzati dall’Ocse mostrano nei tre anni considerati una crescita della povertà dal 13 al 14% per i bambini e dal 12 al 14% per i giovani, mentre per gli anziani, che sono in qualche modo protetti dalla pensione, si registra un calo della povertà relativa, che scende dal 15 al 12%.

A seguito di politiche economiche espansive e la costante crescita di fiducia sui mercati, almeno fino al 2020 la situazione è rimasta pressoché stabile fino alla pandemia.

Secondo un rapporto della banca svizzera UBS il patrimonio delle persone più ricche al mondo sta aumentando notevolmente anche in questo momento immediatamente successivo ad uno dei più grandi shock esogeni del sistema economico globale, proprio mentre dilaga la recessione e molti stanno perdendo il lavoro.

Nello studio dell’UBS non si citano casi singoli, ma già da tempo sono circolati nomi legati all’incremento della ricchezza: si parla ad esempio di Jeff Bezos, a capo di Amazon, di Elon Musk, in forte crescita con Tesla e SpaceX, e di Mark Zuckerberg, che nonostante critiche, scandali e disaffezione dei giovanissimi, ha registrato notevoli entrate proprio negli ultimi mesi.

La recessione, dunque, favorendo di fatto i più ricchi in considerazione della propensione al rischio che può associarsi ai grandi patrimoni (guadagni importanti sono stati ottenuti acquistando azioni mentre i mercati erano in picchiata e rivendendole durante il rialzo) ha drasticamente incrementato la disparità sociale, evidenziando ulteriormente una caratteristica del sistema economico complessivo che, al di là di considerazioni etiche, rischia di indebolirlo fortemente in prospettiva.

Ecco quindi, volendo tirare un po’ di somme, in maniera un po’ nichilista e disillusa, Karl Marx (leggerlo è un esercizio intellettuale sempre attuale e stimolante) sosteneva che il capitale si accumula all’infinito, ma con rendimenti decrescenti.

Secondo il filosofo di Treviri tale circostanza porta a conflitti tra capitalisti sempre in cerca di nuove opportunità. Se i rendimenti del capitale però sono comunque maggiori della crescita dell’economia reale, i ricchi diventeranno sempre più ricchi e la disuguaglianza aumenterà: il rapporto tra capitale e redditi crescerà da meno di 4,5 del 2010 a 6,5 nel 2100.

Per tradurre i numeri: le nostre economie occidentali non si stanno evolvendo in direzione di una maggiore uguaglianza, anzi, le spinte verso ipotetiche socialdemocrazie o prospettive di redistribuzione del Novecento sono state un’eccezione e un’illusione. In pratica, ciò che ci aspetta è sostanzialmente un ritorno ad un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen o Balzac in cui non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio. Perché la ricchezza non si accumula, si eredita.

In conclusione, quindi, è la dinamica interna dell’economia schumpeteriana: se il capitale cresce sempre più in fretta dell’economia reale, visto che i ricchi hanno molta più ricchezza della classe media le cui sorti dipendono dai redditi, i ricchi diventeranno sempre più ricchi.

In sostanza, molto banalmente, se non si investe nell’economia reale prediligendo le speculazioni finanziarie, si ci ritrova nel paradigma di “Parasite” in cui chi ha tutto ha tutto e chi ha niente ha niente.

avv. Giulio Elefante